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QUESTIONE DI NOME: BEPPE SERVEGNINI, FIRMA DEL “CORRIERE DELLA SERA”, SOTTOLINEA L’IMPORTANZA DI UN NOME COMUNE PER LE BOLLICINE ITALIANE. LA RISPOSTA DI MAURIZIO ZANELLA, PRESIDENTE DEL CONSORZIO DEL FRANCIACORTA: “CONSIDERAZIONE SACROSANTA, MA ...”

Per chi se la fosse persa, vi proponiamo il botta e risposta a distanza tra Beppe Severgnini, firma di punta del “Corriere della Sera” che, il 16 settembre, riportava una sua riflessione sulla necessità per le bollicine italiane di trovare un nome comune per promuoversi con efficacia all’estero, e la “risposta” del presidente del Consorzio del Franciacorta, Maurizio Zanella. Il tutto con un atteggiamento sicuramente costruttivo, all’insegna della riflessione e dell’ironia ...

Vino, se il nome conta più delle bollicine ... di Beppe Severgnini
So che vorreste leggere del futuro dei “futuristi” di Fini e della responsabilità dei “responsabili” di Nucara (e poi dicono che i politici non hanno il senso dell’umorismo). Niente da fare: oggi si parla di bollicine vere, non di quelle che escono dalla bocca dei nostri rappresentanti (?) quando non dicono niente. Ricevo, infatti, da Luigi Menestrina, che mi ha ascoltato ieri a Radio Montecarlo: “Mi scuso in anticipo se ho frainteso, ma mi pare che lei abbia confuso lo champagne con lo spumante. Nominando Moët e Ferrari. Da buon trentino mi permetto di invitarla a visitare le nostre terre e le nostre cantine. Magari per Autunno Trentino, manifestazione enogastronomica?”. Forse non mi sono spiegato bene, caro Menestrina. Ho detto questo: dopo aver visitato per la prima volta la regione di Epernay, dove ho conosciuto la deliziosa Scarlett (intervista su Sette giovedì prossimo), ho capito questo: esiste un rapporto tra la qualità dello champagne e il suo prezzo, considerati gli investimenti, il lavoro e l’organizzazione che ci stanno dietro. Lo stesso purtroppo non si può dire della moda italiana, ho aggiunto. Il giochino produco a poco in Oriente/vendo a tanto in Occidente sta mostrando la corda.
La gente è ingenua, ma non tonta. I cinesi, poi, sono furbissimi. Come ha ricordato impietosamente Rachel Donadio sul New York Times, a Prato lavorano giorno e notte 3.200 imprese tessili, fabbricando vestiti e accessori di fascia bassa, e rimandano in Cina 1.5 milioni di dollari al giorno (denaro che non compare nelle dichiarazioni fiscali, nota la Banca d’Italia). Come dire: made in Italy, buonanotte. Ho esteso invece il complimento a ottimi prodotti italiani come Ferrari, Berlucchi, Ca’ del Bosco e altri. Hanno però un problema di denominazione che, secondo me, ne limita il successo internazionale. 1) Non possono chiamarsi “champagne”, un’indicazione d’origine geografica 2) Non devono chiamarsi “brut” (brutto!) né “champenoise”, che sa di vorrei-ma-non-posso 3) Non hanno convenienza a definirsi “spumanti”, nome associato a vini dolci di bassa qualità/basso prezzo 4) Non s’illudano di chiamarsi “metodo classico”, una denominazione goffa e vaga (s’adatta a qualsiasi prodotto, dal lamierino alle scarpe).
Uno dei motivi dell’enorme successo del Prosecco, in Italia e all’estero, è questo: buon rapporto qualità/ prezzo, prodotto svelto/fascia media, nome originale, divertente e inequivocabile. La nostra lingua è eufonica, dobbiamo approfittarne. Gli stranieri amano pronunciare i nomi italiani (perdonate l’autocitazione: perché credete che negli Usa abbiano chiamato un mio libro La Bella Figura, nome che hanno mantenuto pure in Cina, dove è stato appena pubblicato?). Quindi, riassumendo: Ferrari, Berlucchi, Ca’ del Bosco & C. devono trovarsi in fretta un sostantivo comune. Se ognuno vorrà andare per il mondo col nome proprio, considerata la qualità del prodotto, avrà le sue soddisfazioni. Ma concorrenza allo champagne non la faremo mai.

La risposta di Maurizio Zanella, presidente del Consorzio del Franciacorta ...
Caro Severgnini,
innanzitutto desidero ringraziarla a nome di tutti i produttori di vino italiani per aver evidenziato un problema su cui da molti anni si discute nel nostro “petit monde”. Per venire al nocciolo del problema le confermo che le sue “4” considerazioni circa la necessità di trovare un nome, o per meglio dire una Denominazione alle bollicine italiane, sono sacrosante ma non sempre condivise al di fuori del nostro territorio. È proprio per questo motivo che i produttori della Franciacorta nel 1995 decisero unanimamente di voltare pagina, sfruttando la Denominazione della zona di origine e chiamando al maschile il vino frutto dei loro sacrifici: il Franciacorta. Da quell’anno ad oggi i fatti ci hanno dato ragione: siamo passati da 2 milioni a 10 milioni di bottiglie vendute, la zona si è arricchita di più produttori, da 40 le cantine sono diventate 104, garantendo al consumatore una tavolozza di varietà incredibile, ognuna con nuance diverse.
Abbiamo volontariamente modificato il Disciplinare di produzione rendendolo il più severo al mondo (la produzione di uva per ettaro più restrittiva, 100 quintali, e i tempi di maturazione minimi più lunghi, 18 mesi) e non ce ne vogliano i cugini della Champagne.
Quindi - come lei ha giustamente osservato - il consumatore non è “tonto” ed ha premiato la zona che ha più investito e continua a farlo sulla qualità vera e reale, pronta e felice ad accogliere gli appassionati, confermando tutto ciò con la magia del suo territorio, le sue bellezze ed il rigore produttivo dei suoi viticoltori. Abbiamo una sola lacuna, quella di non essere riusciti a comunicare ad un mondo più vasto quanto sopra, altrimenti lei non ci avrebbe dimenticato!
Speriamo di colmare al più presto questa lacuna, cominciando con un libro in uscita che riceverà in anteprima; a nome dei 191 viticoltori della Franciacorta mi impegnerò a far si che ciò accada il più velocemente possibile affinché, nel mondo, i cittadini italiani possano finalmente essere orgogliosi di degustare un grande Franciacorta, senza il minimo timore reverenziale nei confronti di chicchessia.
Non posso invece essere d’accordo anche sulla sua fede calcistica e quindi mi permetto di salutarla cordialmente, ma in rossonero!

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