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SE ANCHE IL VINO DELOCALIZZA PARTE DELLA PRODUZIONE: MONETA FORTE, VINO DEBOLE, E COSÌ IL MARCHIO AUSTRALIANO JACOB’S CREEK DEL GRUPPO PERNOT RICARD IMBOTTIGLIERÀ IN EUROPA PER LIMITARE GLI EFFETTI NEGATIVI DELLA MONETA DELL’ISOLA DEI CANGURI

Per chi pensasse che il vino, a differenza della maggior parte delle produzioni, fosse indissolubilmente legato al proprio territorio d’origine, è il momento di fare i conti con una realtà diversa. Problematiche contemporanee come l’ipervalutazione del dollaro australiano e una rinnovata attenzione all’ambiente, stanno infatti portando ad un ripensamento della catena produttiva enoica, in chiave di “delocalizzazione”. E allora, per la prima volta, Jacob’s Creek, il più grande marchio del vino australiano, di proprietà del gruppo francese Pernod Ricard, ha spedito via mare in contenitori d’acciaio un intero lotto di vino destinato alla sua etichetta “Classic”, un vero e proprio “must” sui mercati britannici e irlandesi, che sarà imbottigliato ed etichettato in Europa e non più a Barossa, dove veniva storicamente confezionato. L’operazione per mettersi, soprattutto, al riparo dall’aumento delle quotazioni del dollaro australiano, che attualmente comprime i margini di guadagno per produttori di vino australiani e minaccia la redditività del settore.

“Non siamo certo i primi, e non saremo gli ultimi”, ha spiegato al quotidiano australiano “The Age” Brett McKinnon, l’amministratore delegato di Orlando Wines, che si occupa del marchio Jacob’s Creek per conto dei proprietari francesi. “Sicuramente un sacco di altri produttori l’hanno fatto e lo faranno ancora, ed è qualcosa che abbiamo già visto negli ultimi 10 anni”.

McKinnon aveva già registrato varie richieste provenienti dia clienti europei per ridurre l’impronta carbonica dei vini a marchio Jacob’s Creek. Un incoraggiamento per l’azienda ad imbottigliare la propria produzione più vicino al mercato di sbocco, che è diventato un vero e proprio “dictat” con il recente e straordinario apprezzamento del dollaro australiano.

La Pernot Ricard, l’azienda francese che è uno dei grandi gruppi mondiali del wine & spirits e che possiede la Jacob’s Creek, il più grosso produttore australiano di vini, ha deciso così che l’imbottigliamento e il confezionamento non dovranno più farsi più in Australia, “delocalizzando” queste operazioni a favore dei mercati di destinazione. Il vino in grandi contenitori di acciaio inossidabile sarà spedito in Gran Bretagna o in America e là confezionato.

Dietro questa decisione vi sono due fattori: il primo, forse temporaneo, è l’attuale forza del dollaro australiano, che scoraggia l’export e incoraggia l’import. Il secondo, più permanente, è il fatto che trasportare bottiglie costa di più, in termini monetari e, in questi tempi di sensibilità ecologica crescente, in termini di impronta carbonica, rispetto al trasporto di vino sfuso.

Altri produttori australiani stanno seguendo quest’esempio, come McGuigan e Nepenthe, annunciando, la scorsa settimana, che a causa del’alto tasso di cambio avrebbero cominciato ad imbottigliare in Gran Bretagna per ridurre i costi di produzione.

Il super-dollaro australiano ha indebolito i vini del Paese del canguro soprattutto sui mercati tradizionalmente forti di Europa e Nord America, mettendo, di fatto, l’Australia fuori dai flussi commerciali più importanti e privilegiando i vini spagnoli, neozelandesi, sudafricani e italiani.

L'impatto di questa vera e propria delocalizzazione dell’imbottigliamento sta già, però, avendo, i suoi effetti. La Penrice Soda Holdings, l’unico produttore in Australia di carbonato di sodio, un ingrediente fondamentale per la produzione delle bottiglie di vetro, ha già registrato più di 20 milioni di dollari di svalutazione solo in questo mese. Anche la statunitense Owens-Illinois, il più grande fornitore mondiale di contenitori in vetro, ha registrato una flessione del 20% nelle forniture per l’Australia.

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