Il calo dei consumi interni, compensato da una crescita delle esportazioni, è un fenomeno ormai consolidato da anni nei più importanti Paesi produttori, Italia e Francia in primis. E se per il Belpaese, già nel 2010, il vino tricolore consumato all’estero è stato di poco maggiore a quello bevuto in Italia, ora un altro caso eccellente, in questo senso, arriva dalla Champagne. Paragone improprio, in assoluto, visto che si parla, da un lato, di tutta la produzione italiana e, dall’altro, di una parte di quella francese. Ma è pur vero che, tra tutti i grandi vini francesi, il brand “Champagne” è probabilmente quello che più di tutti, nel mondo, rimanda subito con il pensiero alla Francia, e diventa, per questo, caso emblematico di quello che succede nei calici transalpini.
Le cifre del Comité Champagne, infatti, parlano di un 2014 in cui le esportazioni dovrebbero superare i 308 milioni di bottiglie, a +1% sul 2013, per un fatturato di 4,5 miliardi di euro (poco meno dell’intero export italiano che, secondo Wine-Monitor Ismea, nonostante una crescita minima, dovrebbe toccare il nuovo record di 5,1 miliardi di euro nel 2014), appena al di sotto del record storico del 2007 (4,56 milioni di euro).
Con i consumi stranieri che dovrebbero superare, per la prima volta, quelli interni, che registrano il quarto anno consecutivo in calo, a -2-3%. Diminuzione che, nonostante le note liete che arrivano dal resto del mondo, preoccupa non poco le maison. A guidare la riscossa dello Champagne, in ogni caso, è stato il Regno Unito, che vanta un’importanza storica nel commercio delle bollicine francesi, tanto che una bottiglia su 10 è venduta proprio in Uk, grazie, dopo due anni difficili, al buon andamento dei ristoranti e bar di Londra. Molto bene anche l’andamento in Germania, così come le vendite in Europa meridionale, in particolare in Italia, dopo un calo del 14% nel 2013. Fuori dell’Europa, il boom economico degli Stati Uniti ha alimentato una nuova sete di Champagne, ma fanno bene anche Giappone ed Australia, Paesi disposti anche a pagare prezzi superiori alla media.
Ma, in ogni caso, è l’ennesimo dato che spinge ad una riflessione: cosa accadrebbe ai Paesi produttori più importante d’Europa se, negli anni, il mondo iniziasse a puntare più decisamente di quanto accade su altri nomi? Quanto si può continuare a “delegare” la crescita ai mercati stranieri? Ai posteri, come si dice, l’ardua sentenza.
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