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“Siamo diventati sudditi di una repubblica confessionale fondata dai cuochi. La cultura del cibo come gusto e comunicazione scompare nell’epoca dei grandi chef”: è la critica dall’antropologo Vito Teti nel suo nuovo libro “Fine Pasto”

“Siamo diventati sudditi di una repubblica confessionale fondata dai cuochi. La cultura del cibo come gusto e comunicazione, cerimoniere che collega e non separa, che esprime natura e cultura scompare nell’epoca dei grandi chef”: è la critica dall’antropologo Vito Teti nel suo nuovo libro “Fine Pasto”, edito da Einaudi.
“Carlo Cracco - secondo l’antropologo - è il modello di una sacralità che ogni strato sociale attribuisce ai cuochi (mentre campioni dello sport e divi del rock e del cinema sono sacri solo per i loro fan). Mentre Massimo Bottura, lo chef modenese che cita scrittori e artisti - spiega Vito Teti nel suo libro - è quello che conferisce legittimazione culturale ad aspiranti cuochi e gastrocrati. Siamo, però, ormai all’opposto dal mito di Cadmo, cuoco del re di Sidone e insieme introduttore della scrittura in Grecia; siamo all’opposto dell’apologo che unisce linguaggio e gastronomia. L’attuale repubblica dei cuochi televisivi in realtà si presenta come un’autocrazia che urla e aggredisce e impedisce il linguaggio, il dialogo, lo scambio e la convivialità”.
“Se Cadmo - continua Teti - aveva introdotto la scrittura, i cuochi televisivi e mediatici (spesso ignoranti e con un pessimo rapporto con l’italiano e con il linguaggio), con le loro esibizioni, annullano la potenza e la verità della parola che fonda e inventa, e cancellano il valore simbolico e sociale del mangiare.
I cibi esibiti, maneggiati dalla dieta mediatica sono merce che non fa riferimento alla produzione. Un tempo si rubava e si apprendeva con gli occhi, adesso lo spettacolo del cibo non crea consapevolezza. Da antropologo - dice ancora lo scrittore di “Fine Pasto” - il cibo sognato e desiderato come un’utopia dalle “pance vuote” della civiltà contadina è diventato la fonte di ossessioni, squilibri e nuove paure. Nel passaggio dal mondo della fame a quello del troppo pieno il senso del mangiare è mutato di pari passo al contenuto dei cibi, ai metodi produttivi e alle pratiche alimentari. Una trasformazione che riguarda la salute, il corpo, lo stare assieme, il rapporto con i luoghi, la costruzione dell’identità, il sacro. Il Mediterraneo di oggi è l’oceano di un secolo fa. In gioco non c’è solo il cibo, la possibilità di nutrirsi e di placare la fame - il tema di un’Expo che appare troppo distante da questa sofferenza - ma la nostra idea di convivenza. Un universo che ci interroga, chiedendo risposte ad un Occidente smarrito”.

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