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SLOW FISH - ORATE E BRANZINI D'ALLEVAMENTO, PERCHE' NO?

Due milioni di tonnellate di pesce allevato in Europa nel 2003, di cui 170 mila in Italia, per un valore complessivo di 5 miliardi di dollari. Sono solo alcuni dati (fonte Fao) della produzione da acquacoltura, una delle attività per la produzione di alimenti a più rapida crescita, che a livello mondiale nel 1972 rappresentava quasi il 30% delle produzioni ittiche totali. Di acquacoltura, delle sue debolezze e dei suoi punti di forza, si è discusso a Genova a Slow Fish, il Salone del pesce sostenibile ideato e organizzato da Slow Food in collaborazione con la Regione Liguria.
L'acquacoltura è una attività antica: in Italia è cominciata negli anni Cinquanta con lo sviluppo dell'allevamento della trota iridea, di origine nord americana. La moderna acquacoltura marina in Mediterraneo è nata da circa 30 anni, grazie allo sviluppo delle tecniche di riproduzione controllata. Molti dei prodotti che vengono oggi offerti sui banchi della grande distrbuzione, nelle pescherie e nei mercati sono allevati. E' necessario quindi imparare a convivere con l'acquacoltura, una attività che non deve e non può sostituirsi alla pesca tradizionale, ma solo integrarla.
Ma quale acquacoltura? "Dobbiamo innanzitutto parlare di una acquacoltura responsabile - ha spiegato il professor Stefano Cataudella, ordinario di Ecologia applicata e di biologia della pesca e acquacoltura presso l'Università di Torvergata (Roma) -: il codice di condotta per la pesca responsabile, pubblicato dalla Fao nel 1995, inserisce le politiche della pesca e dell'acquacoltura nella cornice delle politiche ambientali, mettendo al centro dell'attenzione temi spesso negletti dai modelli produttivi. Oggi tali temi sono al centro del dibattito. Si tratta dell'inizio di un processo che dovrebbe restituire in tempi medio-lunghi una acqucoltura più appropriata per affrontare gli argomenti di un nostro futuro comune".
Nell'analizzare i vari aspetti dell'acquacoltura i relatori hanno messo in luce le caratteristiche, nel bene e nel male, di questa attività. Tra le debolezze bisogna annoverare l'inquinamento, l'impatto visivo, la fuga di specie alloctone, la diffusione di patologie, i conflitti sugli spazi con le popolazioni locali, il non rispetto del benessere animale, il possibile mancato rispetto di buone pratiche e di igienicità e l'impossibilità di uno sviluppo illimitato, per ragioni di disponibilità di risorse alimentari e per questioni di mercato. Punti di forza sono invece le elevate potenzialità produttive, le qualità nutrizionali, il recupero di cultura e tradizioni locali, la diversificazione delle produzioni.
"I criteri a cui si deve attenere un buon allevatore - ha spiegato Roberto Co, titolare di una azienda di Lavagna, nella riviera di Levante - sono soprattutto quelli di una buona alimentazione, un ambiente pulito e un metodo di allevamento sostenibile". Per quanto riguarda il primo aspetto, quello dell' alimentazione, secondo l'acquacoltore ligure "l'esperienza negativa di mucca pazza ci ha consentito di correre ai ripari ed evitare di arrivare ad un 'pesce pazzo'". Da tempo, infatti, dalla dieta dei pesci sono state bandite le farine di origine animale. Oggi orate e branzini mangiano soprattutto farine e olio di pesce e farine vegetali. La buona qualità dell'ambiente è dato in particolare dal ricambio dell' acqua, favorito dalle correnti e dalla profondità. Il metodo d'allevamento migliore, spiega ancora Co, é quello a bassa intensità, cioé con pochi chili di pesce per metro cubo d'acqua.
Meglio dunque il pesce pescato o quello allevato? "La risposta - ha commentato Stefano Cataudella - sembra quasi scontata, ma così non è. Bisogna gustare, conoscere l'origine di un prodotto, disporre di un sistema di etichettatura seria, verificare il rapporto prezzo/qualità". "Tradizione e ricerca - ha concluso - possono aiutare a pescare ed allevare meglio, sempre che i cittadini vogliano e possano avere parte attiva in questa sfida".
Fonte: Ansa

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