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SPACCATA SUL SUO VALORE (ANCHE COMMERCIALE) PIÙ FORTE: QUELLO DEL “MADE IN ITALY”. TRA RAGIONI DIVERSE, ACCUSE, REPLICHE E PRECISAZIONI, APPARE COSÌ LA FILIERA AGRICOLA E ALIMENTARE ITALIANA, DOPO LA PROTESTA COLDIRETTI

Spaccata sul suo valore (anche commerciale) più forte: quello del “made in Italy”. Appare così, ad uno sguardo asettico, la filiera agroalimentare italiana, dopo la protesta di Coldiretti al Brennero dei giorni scorsi, contro i prodotti e le materie prime che dall’estero, arrivano nel nostro Paese e vengono “spacciati”, per l’organizzazione, come made in Italy, ma senza esserlo. Che da un lato ha trovato tanti sostenitori, anche tra le istituzioni, come il Ministro delle Politiche Agricole De Girolamo, ma dall’altro ha trovato la contrarietà di buona parte della filiera, e non solo da parte dell’industria di trasformazione alimentare.
Significativo il botta e risposta tra Coldiretti, che ha accusato di essere destinatarie tra le merci alcune cooperative “che invece dovrebbero tutelare i soci italiani”, e l’Alleanza delle Cooperative, che ha ribattuto citando i dati del settore cooperativo, 35 miliardi di euro di fatturato e reddito per 800.000 soci, e sottolineando come sia stata denunciata, nei giorni scorsi, “in Puglia la Cooperativa Coldiretti che produceva pasta commercializzata come italiana ma con grano proveniente dall’estero. E nessuna organizzazione si è permessa di attaccare per questo tutte le cooperative italiane”. Insomma, toni tesi, accuse e contro accuse, e repliche diverse da più parti. Perché non tutto il prodotto “italiano” realizzato con materie prime straniere, intanto, è illegale, come hanno sottolineato in molti, come Federalimentare, tra gli altri. Senza contare che, per alcune filiere simbolo dell’italianità, come quella della pasta, “l’autarchia della materia prima” è insufficiente alle richieste del mercato per il prodotto finito, e in altri casi addirittura inesistente, come in quella del caffè, per citare due casi simbolici.
Coldiretti, poi, ha tirato in ballo anche la sicurezza sanitaria, che sarebbe a rischio con i prodotti provenienti dall’estero, tra cagliate e latte dalla Germania, prosciutti dall’Olanda e così via. Ma come ha ricordato il dg del Ministero della Salute Silvio Borrello, su “Il Sole 24 Ore”, le aziende che producono in Germania, Olanda e negli altri Paesi Ue sono sottoposte agli stessi controlli di quelle italiani, visto che le regole sono comunitarie, e che i sistemi di controllo sugli aspetti sanitari alle frontiere sono, in ogni caso, sono rigidissimi. Senza contare, poi, che c’è un made in Italy di prodotti eccellenti e Dop che vende con alto valore aggiunto e si salva con le esportazioni, e che può (e deve) selezionare di più la materia prima, e un altro di prodotti realizzati in Italia, di più basso prezzo, che spesso non ha la valvola di sfogo dell’export, ma che deve fare i conti con il calo dei consumi interni e con un potere di acquisto da parte delle famiglie sempre più basso.
Certo, c’è chi invoca quantomeno la trasparenza in etichetta, con l’origine delle materie prime. Ma su questo fa riflettere il commento, rilasciato al quotidiano di Confindustria, da parte di Massimo Romani, dg dei Grandi Salumifici Italiani: “la provenienza d’origine - sostiene - non è drammatica, si può anche fare. Ma scrivere in etichetta che l’espresso italiano è il prodotto del caffè verde brasiliano o vietnamita, oppure che la pasta di Gragnano contiene grano russo o canadese credo che non faccia bene al made in Italy. Si diluirebbe il concetto di italianità del prodotto e ci faremmo del male da soli. Anche agli agricoltori italiani”. Ognuno, insomma, ha le sue ragioni, più o meno valide, ma la certezza è che il sistema agricolo e produttivo del food tricolore è diviso su cosa sia, come vada tutelata, comunicata e utilizzata sui mercati “l’italianità” dei prodotti. E questo, è certo, no va a vantaggio di nessuno.

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