Molti dei prodotti agroalimentari del ricchissimo “giacimento gastronomico” italiano sono, senza alcun dubbio, l’espressione più alta delle tecniche di produzione, coltivazione e allevamento della grande, e a torto troppo spesso dimenticata, tradizione contadina
del nostro Paese. Non quindi semplici beni di consumo, indispensabili alla nostra sopravvivenza, ma piccoli “monumenti” della cultura materiale italiana, veri e propri frammenti di storia patria, in cui si condensano saperi antichi, biodiversità e rapporto con le risorse naturali non di rapina, ma di alleanza. A tutela di questo enorme patrimonio, che in alcuni casi rischia decisamente la scomparsa ad opera della cattiva educazione alimentare e delle pessime abitudini consumistiche da “fast-food di ritorno”, che condizionano anche in Italia la maggioranza delle scelte in fatto di alimentazione, l’opera meritoria di Slow Food con i suoi “Presidi” e un ventennio di battaglie condotte sul campo da parte di uomini e donne in difesa del diritto al buon bere e al ben mangiare e della sua diffusione consapevole. Ma questa importantissima operazione, prima di tutto, culturale, e dal non celato obbiettivo universalistico, non è riuscita tuttavia a sottrarsi a delle contraddizioni, per certi aspetti inevitabili. I prodotti dei “Presidi”, o comunque l’agroalimentare di eccellenza, appartengono ancora ad un settore del mercato, che è quello di nicchia, caratterizzato da prezzi alti, difficile reperibilità dei prodotti e riservato, pertanto, quasi esclusivamente ad
una ristretta elite di gourmet.
Un kg di pane di Altamura, dalle caratteristiche organolettiche ineccepibili e cotto rigorosamente in forni a legna, dopo lievitazione naturale, costa 5 euro (contro 1,50 circa di un Kg di pane, diciamo, “normale”). E ancora, una bistecca chianina, razza toscana tutelata da Dop, costa dai 25 ai 22 euro al kg (contro i 18 di una buona - ma normale - bistecca). Oppure: il sale grosso marino di Trapani, ottenuto per essiccazione spontanea dell’acqua di mare, dal costo, però, di 1,50 euro al kg (contro i 50 centesimi di euro, della stessa quantità acquistata in una qualunque tabaccheria) ….
Secondo Slow Food il problema risiede tutto nello strapotere della grande distribuzione, che penalizza i consumatori e gli stessi produttori. Per arginare l’infinita catena di passaggi, trasporti e perfino di trattamenti inutili ai prodotti, l’associazione di Bra propone i centri di
acquisto diretti. Non sono una novità assoluta. Nati negli Stati Uniti, si sono diffusi in Francia, ottenendo un buon successo. Possono funzionare in diversi modi: o è il produttore che si fa avanti, o sono i cittadini che si uniscono con gli agricoltori.
Il principio però è sempre quello di acquistare in anticipo la produzione dai contadini più vicini, pagando un prezzo che loro reputano equo e sufficientemente remunerativo, per poi vedersi recapitare a casa, poco alla volta, raccolti al momento migliore, cassette di ortaggi, frutta e altri prodotti essenziali. Attualmente, in Italia sono circa un centinaio i gruppi d’acquisto, localizzati in maggioranza in Emilia Romagna, Piemonte e Lombardia. Ma è imprescindibile, forse, anche il contributo delle grandi catene dei supermercati, quelle “buone” come la Coop (così l’ha definita il presidente di Slow Food, Carlo Petrini), sempre più impegnata a proporre ai suoi clienti i prodotti dell’eccellenza gastronomica italiana.
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