Non è certo un segreto: gli antichi romani erano amanti del vino, tanto da onorarlo attraverso la figura divina di Bacco, Dio del vino, del piacere e del divertimento. Ma com’era il vino dell’Antica Roma? Per rispondere a questo quesito, è stata condotta e pubblicata sulla rivista specializzata “Antiquity” dell’Università di Cambridge, ad inizio 2024, una ricerca sulla produzione e le caratteristiche del vino ai tempi dell’Impero Romano.
In primo luogo, è stato preso in considerazione l’iter di produzione della bevanda, ricavata da uve spremute delicatamente, per via della forte importanza dei lieviti naturali nel processo, senza rompere raspi e vinaccioli, azione che conferirebbe al prodotto sapori sgradevoli, e caratterizzato dall’inizio immediato della fermentazione, così da minimizzarne il rischio di fallimento. Il contenitore usato durante l’intera lavorazione era chiamato dolia e consisteva in un grosso vaso ricavato da sapienti mix di argille e dotato di una grande bocca circolare nella parte superiore, che veniva parzialmente interrato per isolare termicamente il suo contenuto e reso water-proof grazie ad uno strato di pece. E il risultato di questa lavorazione era un vino “leggermente piccante” e con aromi di “pane tostato, mele, noci tostate e tè verde” secondo l’archeologo Dimitri Van Limbergen dell’Università di Gand, in Belgio, autore dello studio. Vini rossi o bianchi? La risposta è che “contrariamente alla credenza diffusa, sembra improbabile che la maggior parte della vinificazione nell’antichità fosse bianca, o almeno, non nel suo senso moderno”. Invece, l’uva era aggiunta senza tener conto del colore assieme alle bucce, dicono i ricercatori, conferendo ai vini antichi una vasta gamma di colori: dal bianco, al giallo-rossastro e ancora rosso sangue o nero.
Il segreto romano del vino è da ricercarsi nel metodo di produzione, che riusciva ad isolarlo sufficientemente in fase di fermentazione da eventuali fattori ambientali avversi pur mantenendo un ottimo contatto con il contesto all’esterno del vaso: “la pece ha ottime capacità impermeabilizzanti, ma i vasi rimangono porosi in una certa misura, e questo permette un certo grado di micro-ossigenazione. Il contatto con l’aria non controllato trasforma il vino in aceto, ma l’ossidazione controllata può portare a grandi vini perché concentra il colore e crea piacevoli sapori erbacei, di nocciola e di frutta secca - scrive Van Limbergen - la forma di uovo svolge un ruolo importante nella creazione di vini di qualità, poiché la fermentazione primaria produce anidride carbonica e cambia la temperatura all’interno di questi recipienti, la forma ovoidale crea correnti di convezione interne. Queste correnti agiscono come una sorta di sistema di pompaggio naturale, che mescola delicatamente lieviti, bucce e altri solidi con il mosto. Questo continuo movimento all’interno dei recipienti arricchisce la trama del vino e favorisce l’uniformità nella fermentazione, e quindi l’omogeneità nel mosto”.
Questo modo di vinificare romano, particolarmente in voga tra il II secolo a.C. ed il III e IV secolo d.C. (prima che le botti in legno diventassero sempre più utilizzate) è sopravvissuto fino ad oggi, reincarnandosi in quello georgiano, che ne condivide molti aspetti tra cui il qvevri, recipiente estremamente simile alla dolia, i metodi e le procedure di fermentazione e che ha guadagnato lo status di Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità Unesco nel 2013. La vinificazione romana, utilizzata dallo stesso team di ricerca di Gand nel corso dello studio, e che, anche se low-tech, oltre a garantire un controllo minuzioso su temperatura, umidità e acidità, permettendo quindi di decidere il sapore finale del vino nel dettaglio, permette anche di tracciare parallelismi tra la vinificazione moderna e quella antica così da “sfatare la presunta natura dilettantesca della vinificazione romana” come sottolineato dallo stesso Van Limbergen, insegnandoci di più sul mondo antico.
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