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Una storia amara ... negli anni Sessanta l’associazione di categoria e lobbying degli zuccherifici americani pagò scienziati di Harvard per sminuire la correlazione tra zuccheri e malattie cardiovascolari, ingenerando modelli alimentari errati

Sono documenti pesanti, quelli scoperti negli archivi della fu Sugar Research Foundation (oggi Sugar Association) da un team di ricercatori dell’Università della California di San Francisco. Pesanti perché, nonostante i cinque decenni e mezzo che ci separano da quando furono compilati, raccontano una storia di commistioni palesi, passaggi di mano di somme di denaro, conflitti di interesse non dichiarati e di un conto che, nel lungo periodo, ha pagato gran parte della popolazione americana, se non del primo mondo.
Come riportato da “Ars Technica” (www.arstechnica.com), secondo i documenti, pubblicati questa settimana sulla rivista scientifica “JAMA Internal Medicine” (http://goo.gl/7Jr5hv), nel 1964, John Hickson, l’allora vicepresidente e direttore del settore ricerche della SRF - l’associazione di categoria dei produttori di zucchero americani - decise di confutare una serie di studi nutrizionali risalenti agli anni Cinquanta, secondo i quali sia gli zuccheri che i grassi contribuivano marcatamente ad aumentare i livelli di colesterolo, con tutto quel che ne consegue in termini di rischi per la salute. Fu così che l’anno successivo nacque il cosiddetto “Progetto 226”, il cui scopo era quello di confutare tali studi. Hickson si rivolse in prima battuta a Fredrick Stare, al tempo a capo del Dipartimento di Nutrizione di Harvard, e lo nominò membro dell’advisory board dell’associazione. Successivamente, Stare coinvolse nel progetto due suoi colleghi accademici, ovvero Robert McGandy e Mark Hegsted - e quest’ultimo, dato non secondario, sarebbe poi divenuto direttore del settore Nutrizione del Ministero dell’Agricoltura statunitense. I tre si misero all’opera, con lo scopo di pubblicare un “contro-studio” secondo il quale la responsabilità dell’aumento dei livelli di colesterolo nel sangue era da imputare ai soli grassi saturi, e non anche agli zuccheri.
Il documento vide la luce solo nel 1967, ma nel frattempo i tre intrattennero una fitta corrispondenza, dalla quale traspare in maniera evidente sia il fine ultimo del committente (pagante, dato che gli autori ricevettero dalla SRF una somma pari a circa 50.000 dollari odierni) che la difficoltà di confutare i nuovi studi di terze parti che, nel frattempo, continuavano a correlare il consumo di zuccheri e l’incidenza di patologie cardiovascolari.
L’articolo, firmato da Hagsted e McGandy, apparve sul prestigioso “New England Journal of Medicine”, ma fu redatto in violazione di una serie notevole di linee guida basilari: i due avevano selezionato solo i dati che privilegiavano la loro tesi di partenza, ignorato studi contrari ad essa e amplificato la portata dei dati che suggerivano che i grassi saturi fossero l’unico fattore responsabile. L’articolo scriveva inoltre nelle conclusioni che “non c’era dubbio” sul fatto che l’unico modo di evitare malattie cardiovascolari fosse quello di limitare il consumo di grassi saturi. Dello zucchero, nessuna traccia - e nemmeno del fatto che i due erano stati pagati dalla SRF per la stesura del loro lavoro, dato che il “New England Journal of Medicine” avrebbe obbligato i suoi autori a rendere pubblici i propri conflitti di interesse solo nel 1984. L’effetto dello studio fu notevole: ancora negli anni ‘80 il focus della ricerca scientifica sul rapporto fra nutrizione e malattie cardiovascolari era sul ruolo dei grassi, e solo in tempi più recenti il ruolo di una dieta troppo ricca di zuccheri in tema è stato sottolineato a dovere. E nel frattempo, a propagarsi nella popolazione - non solo americana - è stato un modello alimentare non corretto.

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