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VINI AD ALTO GRADO ALCOLICO, DEALCOLARE O NO? SI PUÒ FARE, MA CONVIENE? LE RISPOSTE NEL DIBATTITO DEL SEMINARIO VERONELLI “L’INSOSTITUIBILE RUOLO SENSORIALE DELL’ETANOLO NEL VINO E IL PROBLEMA DELLA DEALCOLIZZAZIONE” (IL 2 DICEMBRE A BERGAMO)

Vini ad alto grado alcolico? Sempre più un problema o, almeno, una questione su cui riflettere. Grado alcolico che, almeno per i mutamenti climatici, sembra destinato a crescere ancora. Certo, la tecnologia consente di abbassare il grado in cantina e, fino al 20% in meno, dice la scienza, non ci sono effetti negativi sulla qualità. Un’idea, però, su cui ci sono pareri discordanti. La soluzione tecnologica, per esempio, come già scritto su WineNews, non piace a Mr “The Wine Advocate” Robert Parker. E in Italia? A fare il punto sarà il dibattito “L’insostituibile ruolo sensoriale dell’etanolo nel vino e il problema della dealcolizzazione” del Seminario Luigi Veronelli, domani a Bergamo, che focalizza la sua attenzione proprio su una delle principali problematiche che toccano attualmente il mondo del vino. Se da un lato, almeno per la concezione enoica che storicamente si è affermata, l’alcol resta uno dei principali “ingredienti” di quella bevanda che chiamiamo vino, dall’altro la sua eccessiva presenza è destinata a determinare delle criticità a partire dalla domanda. In prima battuta sembrerebbe quindi un problema di mercato se è vero come è vero che i consumatori sono sempre più a caccia di prodotti cosiddetti “leggeri” e i media, con una qualche ragione, stanno dedicando un’attenzione crescente proprio a quei vini, dalla bevibilità, almeno sulla carta, più piacevole e meno impegnativa. Ma non solo.

“I risultati scientifici ormai acquisiti e pubblicati su diverse riviste del settore - spiega a WineNews il Professor Luigi Mojo, cattedra di Enologia all’Università degli Studi di Napoli Federico II e principale relatore del convegno del Seminario Veronelli - hanno già dimostrato che un abbassamento del grado alcolico del 20% non modifica l’assetto sensoriale di un vino, il che però ingenera tutta una serie di problematiche a partire da quella di carattere giuridico. Paesi quali Australia e Spagna sono intenzionati a realizzare prodotti anche a contenuto alcolico pari allo zero, partendo da vini ad alto tenore alcolico (15-16 gradi) che, secondo quanto stabilisce l’Oiv, possono essere ancora definiti vini soltanto se la loro dealcolizzazione non superi il 20%. Per non parlare del fatto che avremmo a che fare con bevande la cui materia prima non è più l’uva, ma il vino stesso. E poi “non bisogna dimenticare -aggiunge il docente di enologia - che l’alcol ha nel vino una precisa funzione stabilizzante e una sua totale soppressione apre la strada a tutta una serie di problemi per il vino stesso, allontanando ulteriormente il vino dal mondo agricolo e facendolo virare pericolosamente verso la mera tecnologia alimentare”.

Dal punto di vista organolettico, inoltre, la gradazione alcolica non è poi un elemento così decisivo nel determinare una maggiore o minore bevibilità o una maggiore o minore qualità di un vino. Se si è raccolto un’uva sana, al punto giusto della sua maturazione, e quindi con una buona acidità e una buona struttura, non c’è assolutamente nulla di male nell’avere un vino ad alta gradazione, anzi. Il vino, infatti, dovrebbe essere un punto ormai decisamente noto e assodato, è il risultato di un complesso, quanto fondamentale equilibrio fra le sue varie componenti e la considerazione univoca ed isolata di una sola di queste, è, di solito, fuorviante o addirittura sbagliata.

Le cause sono riconducibili principalmente a due fattori: da una parte un certo cambiamento climatico, o, se si preferisce non avventurarsi in previsioni, almeno una diversa distribuzione del calore e delle piogge sui nostri vigneti, che ha, per così dire, compromesso la gradualità dei tempi di maturazione delle uve; dall’altro gli effetti delle tecniche agronomiche più moderne e delle scelte clonali, per la verità non sempre mirate adeguatamente, che hanno ormai cambiato lo standard qualitativo pressoché dell’intero “vigneto Italia”, aumentando, appunto, anche la capacità dei vigneti di accumulare gradi zuccherini.

“La questione è piuttosto - continua Mojo - da ricercarsi nel fatto che sono determinate varietà, addomesticate in climi più freschi, ad accumulare più zuccheri e quindi a produrre un grado alcolico più elevato, qualora vengano allevate in zone dalle temperature più elevate. E’ il caso, per esempio, del Merlot. Mentre invece vitigni storici come il Montepulciano o l’Aglianico sono “naturalmente” adattati a climi più caldi, mantenendo il loro grado alcolico entro limiti definiti. Poi esistono anche varietà, è il caso del Primitivo, che fisiologicamente producono più zuccheri e quindi sono destinati a produrre gradi alcolici più elevati”.

Insomma, il problema esiste ed è destinato a produrre criticità a vario livello, rivelando tuta la sua complessità. Senza scomodare pratiche enologiche estreme ed ipertecnologiche e considerando ancora prematuro un uso sistematico di lieviti adeguatamente “educati”geneticamente a produrre meno alcol, le opzioni a disposizione dei tecnici sono comunque molte. In cantina, per esempio, l’accresciuto grado alcolico può essere “stemperato” con un’aggiunta di acido tartarico, oppure può essere “saltata” la fermentazione malolattica, ma le operazioni dai risultati migliori sono riconducibili in massima parte ad una più attenta gestione del vigneto, dalla scelta dei tempi di vendemmia, al lavoro sui sistemi di allevamento e sulle rese a ceppo, dalla gestione dell’apparato fogliare, all’irrigazione. Quest’ultima soluzione però innesca un’altra criticità: l’acqua è sempre più scarsa e quindi non dovrebbe essere usata per produrre un bene voluttuario. Se i mutamenti climatici non permetteranno più di praticare la viticoltura in certe zone, allora dovremo spostarci in altre. Non sarebbe la prima volta. E’ accaduto già in altri periodi della nostra storia e potrebbe verificarsi di nuovo.

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