Per il Governo i vini dealcolati non si devono chiamare vino, e anche se una normativa per produrli in Italia, accogliendo il regolamento europeo in materia, si troverà, di certo non ci saranno incentivi per promuoverli, ha ribadito più volte il Ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida. Ma nel mercato, invece, i vini dealcolati stanno crescendo a doppia cifra. Difficile capire se siano una moda del momento, legata anche al crescente salutismo e all’effetto della campagne anti alcol in arrivo da più parti, o un trend di lungo periodo destinato a rimanere. Fatto sta che le imprese italiane chiedono un cambio di passo, per poter produrre in Italia quello che oggi sono costrette a fare fuori dai confini nazionali, lasciando fuori dal Belpaese una buona parte di valore aggiunto di prodotti che, peraltro, al netto del loro profilo organolettico, non sono poi così economici. Ma che anche nel Belpaese una buona fetta di mercato sarebbe disposto a sperimentare. “In Italia il 36% dei consumatori è interessato a consumare bevande dealcolate; negli Stati Uniti, incubatore di tendenze specie tra i giovani, il mercato Nolo (no e low alcohol) vale già 1 miliardo di dollari. Ma l’Italia in questo caso gioca un ruolo residuale, perché - contrariamente a quanto già succede da due anni tra i colleghi nell’Ue - non è ancora possibile per le imprese elaborare il prodotto negli stabilimenti vitivinicoli e non sono state fornite indicazioni agli operatori sul regime fiscale. In estrema sintesi, il prodotto può circolare anche in Italia (come in tutta l’Ue), ma i produttori italiani non possono produrlo”. Così oggi a Vinitaly 2024, a Verona, il segretario generale di Unione Italiana Vini (Uiv), Paolo Castelletti, ha aperto i lavori della tavola rotonda “Dealcolati & Co - Le nuove frontiere del vino”, realizzata in collaborazione con Vinitaly.
Al tavolo, assieme alle testimonianze di 7 imprese del vino che in questo canale hanno investito (Argea, Doppio Passo, Hofstätter, Mionetto, Schenk, Varvaglione 1921, Zonin1821) costrette a dealcolare all’estero, anche gli analisti di Swg e dell’Osservatorio del vino Uiv-Vinitaly, per fare il punto su un segmento ritenuto complementare, anche nel Belpaese, ai consumi di vino tradizionale.
“Questi prodotti - ha detto l’analista Swg, Riccardo Grassi - interessano prima di tutto un potenziale di 1 milione di non bevitori di alcolici, oltre ad una platea di consumatori di vino o altre bevande (14 milioni) che li ritiene un’alternativa di consumo in situazioni specifiche, come mettersi alla guida”. Una tipologia che potrebbe essere un nuovo alleato anche per il vigneto Italia: “sentiamo sempre più spesso parlare di espianti finanziati - ha aggiunto Castelletti - ma le imprese, che negli ultimi anni hanno ristrutturato metà del proprio vigneto (310.000 ettari) con erogazioni pubbliche pari a 2,6 miliardi di euro, vogliono continuare a svolgere il proprio lavoro, magari riducendo le rese, puntando ancora di più sulla qualità e, perché no, potendo contare su un nuovo asset di mercato come quello dei Nolo che interesserebbe aree produttive più in difficoltà”. Secondo Swg, la quota di attenzione verso i vini dealcolati (21%) è più alta nelle fasce più giovani (28% da 18 a 34 anni), il target a maggior contrazione dei consumi di vino che nel 79% dei casi dichiara “importante” se non “molto importante” o “fondamentale” poter ridurre i problemi legati all’abuso di alcol mettendo a disposizione dei consumatori prodotti a zero o bassa gradazione. Forte interesse anche da parte dei giovani di Uiv. Secondo il presidente di Agivi, Marzia Varvaglione, che è anche produttrice in Puglia con la cantina di famiglia, “la generazione Z sta dimostrando grande attenzione verso una tipologia in grado di rispondere a un pubblico sober curious sempre più numeroso, negli Stati Uniti e nel mondo. L’Italia deve essere in grado di capire prima di tutto sul piano culturale che un prodotto non sostituisce l’altro e insistere su una sperimentazione che può riservare risultati molto interessanti”.
Secondo il focus dell’Osservatorio Uiv, il calo dei consumi di vino tricolore negli Usa (-13% le importazioni a volume nel 2023) è dettato in primis dall’onda cosiddetta salutista delle giovani generazioni, oltre che dalla forte competizione di nuove bevande low alcohol e da una questione demografica che vede la popolazione di bianchi diminuire in favore di altre etnie, a partire dagli ispanici, culturalmente meno orientati ai consumi tradizionali di vino. “I vini low alcohol - ha detto il responsabile dell’Osservatorio Uiv-Vinitaly, Carlo Flamini - negli ultimi anni sono stati protagonisti di una cavalcata che li ha portati a essere una scelta non più secondaria nell’evoluzione del gusto degli americani, e oggi valgono 1 miliardo di dollari. A ciò si aggiungeranno sempre più altre tipologie attente alla propria dieta per un target prevalentemente giovane: i vini low sugar, per esempio, hanno registrato crescite astronomiche nel giro di un quinquennio: da 10 milioni di dollari del 2019 ai 270 dell’anno appena chiuso”. I no alcohol sono ancora una nicchia (62 milioni di dollari val valore cresciuto di sette volte negli ultimi quattro anni), ma le vendite di vini senza alcol provenienti dall’Italia hanno sovraperformato il mercato nel 2023, sia a volume (+33% contro +8%), sia a valore (+39% contro +24%). Il prezzo medio di un alcohol-free wine è leggermente superiore a quello di un vino tradizionale: 12.46 dollari al litro contro 11.96 nel 2023.
E quella del vino dealcolato è una strada a cui guarda con interesse anche il mondo della cooperazione. “Sappiamo che sono pronti dei provvedimenti normativi per agevolare e far partire questa filiera, e questo vede il nostro favore. Perché in questo momento di mercato difficile, il vino dealcolato - ha detto il presidente di Legacoop Agroalimentare Cristian Maretti - può essere un ulteriore segmento dove c’è domanda che va incontro ad esigenze di consumo, quello dei giovani, attento a certi requisiti di benessere. Quello che stimoliamo negli incontri istituzionali è di arrivare in porto in tempi brevi invece di prevedere provvedimenti che magari ricalchino vecchi schemi di estirpazione per equilibrare domanda e offerta. Perché come sappiamo, il rischio è che non si riesca a raggiungere l’obiettivo per il quale erano stati pensati e questo porta ad una scarsa soddisfazione dei produttori. Se non, addirittura diventano incentivazioni, buone uscite per chi comunque aveva deciso di smettere di produrre. Quello che occorre è, invece, una impostazione di sviluppo di mercato su nuovi prodotti e con nuove modalità, su nuove fasce di consumo e nuovi mercati. Tutto questo senza mai dimenticare che un vino senza alcol può ambire a posizionarsi come bevanda, come prodotto anche su quei mercati dove per motivi religiosi l’alcol non è permesso”.
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