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La Repubblica

La semplificazione fa bene alla tavola ... Ho capito che qualcosa non andava quando un ristoratore mi ha raccontato che un carabiniere dei Nas, durante un controllo, gli aveva chiesto: “Perché falla pasta a mano invece di comprarla, etichettata e confezionata come si deve?”. E il ristoratore, disarmante gli aveva risposto: “Perché è più buona”. Viviamo in un mondo in cui qualsiasi impresa alimentare, che operi su larga scala, rivendica radici artigiane o addirittura suggerisce che le sue commodities, realizzate in milioni di “pezzi”, talora su scala mondiale, derivino proprio da un processo manufatturiero propriamente inteso. Ce lo lasciano intendere i produttori di polli broiler che gettano manciate di becchime sull’aia così come le immagini patinate di aitanti panettieri che, naturalmente amano, impastano ciò che dal sacchetto in plastica arriva sempre fresco sulla nostra tavola. Intendiamoci, niente di male se l’industria alimentare, quando fa bene il proprio mestiere, rivendica di non far rimpiangere il cibo prodotto artigianalmente, suggerendo di essere in grado di garantire una qualità non (troppo) inferiore. Si tratta di quello che si chiama dolus bonus: la vanteria del venditore che inevitabilmente abbellisce, più o meno metaforicamente, la propria merce.
Il guaio è che l’attuale quadro normativo, sempre più complesso (ma meglio sarebbe dire arzigogolato), collabora a far sì che nella nostra postmodernità consumistica ci sia sempre di più spazio pèr l’industria e per le sue vanterie (lo ripeto a scanso di equivoci: comprensibili e anche, talora, legittime), ma sempre meno per l’artigiano che davvero realizza - con un processo in cui le logiche economiche sono solo una parte della motivazione, non l’unica - il cibo manualmente.
E come se fosse rimasto posto per la manualità, per la lentezza, per l’unicità e l’inevitabile disomogeneità delle produzioni artigianali, solo negli spot. Nella vita reale, quando si fa sul serio, meglio ricorrere a ciò che viene confezionato “come si deve” a ciò che dalla sua ha una porzionatura perfetta, una reperibilità diffusa, una qualità tanto costante da essere rassicurante anche quando mediocre. C’è questo straordinario corto circuito, dietro la domanda del militare dei Nas posta al ristoratore. E c’è lo stupore di chi di colpo si ritrova legittimo protagonista di uno spot, ma non più altrettanto legittimamente produttore di cibo, nella risposta disarmante del cuoco.
La produzione alimentare in Italia ha resistito, più di altrove, a certi processi di massificazione. Ma è indubbio che qualcosa stia radicalmente cambiando. E a questo cambiamento contribuiscono la legislazione e la burocrazia, sempre più improntate a un malinteso principio di precauzione, nel quale la regolarità formale conta, talora molto di più, della qualità e della salubrità sostanziali.
Non stiamo facendo un buon servizio al Paese. Non stiamo rispettando le sue tradizioni e la sua ricchezza. In nome di un’igiene idolatrata, iniziamo con il vietare alle mamme di cuocere una torta per il figlio che compie gli anni e vuole festeggiare con i compagni di scuola e finiamo con il suggerire al ristoratore che se comprasse quei tajarin invece di ostinarsi a fare la pasta con le sue mani, i controlli sarebbero più spediti e dall’esito certamente indolore. Credo che sia ora di cambiare paradigma e fa piacere vedere qualche segno premonitore, di questa necessaria inversione di rotta, nel cosiddetto decreto semplificazioni del 27gennaio.
Credo che non sia azzardato ritenere che la maggior parte dei panificatori, salumieri, macellai, casari, ristoratori e osti d’Italia siano disposti a ribaltare completamente questo sistema fatto di carte, alimentato e ingigantito da interessi convergenti (dell’industria, delle burocrazie, dei consulenti per cavarsela con le burocrazie), per ritornare al primato della realtà sul racconto della realtà. Credo che ci possiamo permettere una drastica riduzione degli adempimenti, di cui si è perso il collegamento con un’effettiva necessità, con un’effettiva esigenza di garanzia del consumatore.
Se questo significa una rivoluzione liberale, ebbene la si chiami così. Ma io preferisco chiamarla rivoluzione della responsabilità individuale. Altro che licenza, altro che libertà di fare ciò che pare e piace: l’esatto contrario. Un sistema basato sulla responsabilità individuale è un sistema in cui chi produce controllando tutto il processo deve essere considerato, da chi ha l’onere di controllarlo, non come un soggetto da stangare, ma come un operatore che deve essere aiutato a fare bene e semmai a migliorare. Per questo appare positivo che il decreto Semplificazioni trasformi da preventivi in successivi molti controlli, anche se permane l’incognita sull’estensione di questa nuova prassi al settore alimentare, sui tempi dei decreti ministeriali attuativi, sull’efficacia dell’ordine, alle diverse amministrazioni, di sfoltire e semplificare. In questa prospettiva, al posto di fogli e fogli di moduli che svolgono solo la funzione di scoraggiare (l’intrapresa dei volenterosi) e giustificare (l’esistenza dei burocrati), chi desidera produrre il cibo artigianalmente, credo debba essere debitamente formato e verificato in questa sua formazione (non certo con corsi fasulli in cui basta la presenza, anche se si dorme). Quindi, all’inizio della propria attività, deve essere richiesto di una solenne, assunzione di responsabilità: se qualcosa non sarà fatto a regola d’arte, se un suo prodotto non sarà salubre e integro, non solo sarà punito a norma di legge, ma non potrà più intraprendere un’attività di produzione di alimenti. Così ci libereremo del peggiore effetto collaterale del sistema attuale: chi ha la testa sul collo e rispetto della legge si perde d’animo, di fronte a tutte le autorità che bisogna portare ad acconsentire, per aprire o continuare un’attività artigianale legata al cibo. Intanto, sull’altro versante, i filibustieri che firmano carte senza pudore, passano di scandalo in scandalo: riciclandosi di volta in volta grazie ad etichette formalmente “come si deve”, giocando sul fatto che è divenuto molto più importante il certificato della realtà che esso dovrebbe attestare.
Questa logica perversa ha trasformato il controllo: da strumento di miglioramento della produzione a momento in cui, con ogni mezzo, si deve ottenere il pezzo di carta, per poter dire, quando qualcosa andrà male, che per le autorità tutto era in regola. Questa è una malintesa condivisione della responsabilità del male che si fa agli altri e al Paese. Non possiamo più permettercelo, non vogliamo più permetterlo. Invochiamo la rivincita degli onesti sulle carte e sulla disinvoltura criminale. Perché non c’è liberalizzazione senza semplificazione, come non c’è libertà senza responsabilità.

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