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Il Sole 24 Ore

L’altra Cina del food made in Italy ... Una platea di 600 milioni di consumatori apre grandi opportunità al settore ... Non solo olio, pasta o vino, ma anche conserve, dolci, formaggi. I mercati Asean stanno scoprendo il made in Italy alimentare e si aprono porte allettanti per le nostre imprese del food: l’export ha raggiunto punte del -30%nei primi sei mesi del 2012, tre volte la media export del settore, conferma l’analisi presentata nei giorni scorsi da Federalimentare e Ice in occasione dell’incontro B2B a Fiere di Parma tra una ventina di operatori asiatici e 300 aziende italiane del food (Cibus export seminar). Questo mercato comune del Sud-Est asiatico (tra Indonesia, Malesia, Filippine, Singapore, Thailandia, Brunei, Vietnam, Laos, Myanmar e Cambogia) oggi conta 600 milioni di consumatori con un reddito non lontano da quello occidentale e vale quanto la Cina per la nostra industria alimentare: 120 milioni di euro di export (vino e prodotti agricoli esclusi) nell’aggregato dei 10 Paesi, 142 milioni di euro nella grande Repubblica popolare.
“E si può fare molto di più”. Esordisce con un’autocritica a imprese e istituzioni italiane Annibale Pancrazio, vicepresidente Federalimentare.“Negli ultimi dieci anni ci siamo molto distratti con missioni in Cina e India dimenticandoci dell’area Asean, a differenza dei cugini d’Oltralpe, perché oggi in quei mercati per ogni nostro prodotto ce ne sono dieci della cucina francese”. E più difficile salire su un treno già in corsa, male chance per recuperare non mancano. “Gli asiatici sono innamorati dell’agroalimentare italiano - prosegue Pancrazio - e hanno già una stratificazione del mercato distributivo, dai supermercati di massa alle catene top per gourmet L’Italia, a sua volta, ha tutto ciò che ai consumatori Asean piace: Dop, Igp, biologico, Halal. Le chance di business sono enormi per i nostri produttori”. Se ne è reso conto anche Gabriele Noberasco, direttore generale dell’omonima azienda diAlbenga leader nazionale nella frutta secca, che vede nei mercati del Far East il perno su cui fare leva per raddoppiare la quota export (oggi al 7% dei ricavi) nei prossimi due anni. “L’appeal del made in Italy va al di là del prodotto tipicamente d’origine. La nostra frutta secca o da essiccare - spiega il dg- arriva quasi tutta da fuori confine, ma diventa sinonimo di italianità nella lavorazione e nella presentazione, con un packaging che valorizza il marchio, al punto da aver acceso un forte interesse negli operatoti asiatici anche se si tratta di un prodotto non tipico”. il driver dello sviluppo di Noberasco nell’estremo Sud-Est è il biologico, che oggi vale un 10% dei 70 milioni di fatturato, “ma l’alta qualità di tutta la nostra frutta e la logica salutistica degli snack ci avvicina più al consumatore asiatico che americano”, precisa Noberasco.
“I mercati Asean sono tra i più promettenti, con una dinamicità paria quella cinese ma con una popolazione che li rende ancora più interessanti. A trainare la domanda sono pasta, olio d’oliva, conserve, vino, condimenti come l’aceto balsamico, formaggi, cereali, caffe”, nota Roberto Lovato, dirigente dell’area Agroalimentare dell’Ice, al lavoro sia per portare qui operatori asiatici sia per supportare le nostre aziende intatte le manifestazioni più significative. Come Thaifex a Bangkok, la fiera clou del Far East per l’industria alimentare italiana perché nell’evento del 22-26 maggio 2013 prenderà forma la più grande collettiva di imprese italiane del settore in Asia, grazie alla partnership tra Cibus Fiere di Parma e Anuga-KòlnMesse. “11 focus Asean organizzato a Panna - spiega Antonio Ceffie, ceo di Fiere di Parma, che divide al5o% con Federalimentare la proprietà del marchio Cibus - è una tappa fondamentale di avvicinamento al Thaifex, ma altre tappe scandiranno il tempo fino all’edizione 2014 di Cibus, come Prodexpo a Mosca in febbraio, Foodex a Tokyo in marzo, Fispalin Brasile a giugno, Fancy Food a NewYork in luglio e a FHC a Shanghai a novembre”. Nel Sud-Est asiatico la contraffazione che sfrutta l’italian sounding praticamente non esiste, trattandosi di prodotti ancora poco radicati nei consumi locali Restano le difficoltà tra barriere doganali, usanze religiose e scarsa conoscenza della qualità del made in Italy a tavola, con cui anche un colosso come Citterio si sta misurando. “Per conquistare i mercati asiatici con prosciutti di Parma e San Daniele occorreranno decenni, perché serve un’evoluzione culturale che è ancora confinata nelle metropoli occidentalizzate e perché a essere ricercata dai nuovi ricchi è l’italianità che si può esibire come la Ferrari o la griffe del capo di moda, meno quella che si apprezza nel privato”, spiega Alfredo Luchenbach, export commercialmanager del salumificio milanese, un fatturato che quest’anno sfiorerà il miliardo, metà realizzato oltre confìne. “Oggi Far East vale un 10% del nostro export - conclude - ma è una scommessa vincente, anche se costosa Vogliamo essere pionieri”.

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