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Le due facce dei territori del vino: nonostante crisi, guardando al modello bordolese, grandi aziende e viticoltori d’eccellenza tengono sui prezzi ... Ma nei discount non mancano operazioni spot di commercianti con marchi di fantasia!

Italia
Grandi aziende e viticoltori importanti tengono il loro posizionamento sui prezzi dei loro vini ... ma nei discount non mancano operazioni spot con marchi di fantasia

Un Sagrantino di Montefalco a 7,50 euro sugli scaffali del supermercato tedesco Lidl, un Brunello di Montalcino a 13,30 euro da Aldi in Germania, a cui fa compagnia un Nobile di Montepulciano a 5 euro, ma anche un Barolo a 8 euro in un hard discount inglese e un Chianti Classico in vendita a 4 euro. Tutti i grandi territori del vino italiano sono coinvolti senza eccezioni in questo fenomeno. E non si tratta di abbassamenti o adeguamenti di prezzo che rispondono a mirate strategie scaccia-crisi, ma di vere e proprie “svendite” sottocosto, operate da commercianti smaliziati.

Ma il vino, cosa che spesso viene dimenticata, è una merce come le altre, soggetta, quindi, a lecite e regolari, anche se senza compromessi e a brevissimo termine, operazioni di mercato come queste, per giunta comuni a molti altri generi merceologici in una situazione di crisi strutturale, come quella odierna. Questi commercianti (spesso anche imbottigliatori) non fanno altro che rispondere ad una precisa domanda di mercato, svolgendo anche una funzione in qualche modo “salvifica” sulle eccedenze presenti nelle cantine, evitando il tracollo di non poche aziende. E di fatti, non stiamo parlando di bottiglie griffate o particolarmente conosciute, ma di sub-brand creati “ad hoc” o marchi poco noti, che, comunque sono autentiche, con tanto di fascetta e pur sempre figlie dei grandi territori dell’Italia enologica.

Certo, fino a pochi anni fa, era impossibile trovare sugli scaffali di iper e super mercati bottiglie delle più blasonate denominazioni italiane a meno di 20-30 euro e, evidentemente, c’è il rischio concreto di far perdere a quei territori e a quei prodotti il loro valore aggiunto e, soprattutto, di sminuire il lavoro dei migliori imprenditori del vino italiano, che hanno rischiato in prima persona investendo tutto sulla qualità e il territorio. Ma sarebbe del tutto fuorviante considerare queste operazioni commerciali la regola e la misura del comportamento del vino italiano sui mercati.

Questa è soltanto una faccia della medaglia: l’altra è quella rappresentata dalla capacità delle grandi aziende, ma anche dei viticoltori d’eccellenza, di tenere saldamente il posizionamento dei prezzi dei loro vini su cifre ancora importanti, nonostante la crisi, magari guardando, anche se con fatica, al modello bordolese della flessibilità dei prezzi.

Il problema, tuttavia, esiste ed è figlio di antiche contraddizioni. I produttori fanno le loro scelte, anche in base ai bilanci aziendali e agli investimenti fatti o da fare. Il “tarlo” è se mai da ricercare a monte: nella moltiplicazione spropositata dei vigneti in tutte le zone a denominazione di origine, agevolata dagli appositi incentivi. Tanti vigneti, troppo vino, prezzi stracciati. La cosa, forse, è sfuggita di mano, forse anche per faciloneria o addirittura, precisa volontà, di chi doveva controllare e gestire con oculatezza il rapporto territorio-vigneti e quindi produzione, in una parola fare programmazione. Ma l’uva non è grano e la remuneratività di un vigneto non si misura prima di 5 anni. Oggi che la grande sbronza sembra finita cosa succederà agli ultimi arrivati, a quanti hanno creduto di potersi tuffare nel mondo del vino e rimanere a galla? Quanto potrà durare la cura degli hard discount? L’aumento delle vendite sottocosto, non fa certo lievitare il portafoglio.

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