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EMILIO PEDRON, UNA VITA NEL GIV E NEL MONDO DEL VINO, TRA RIFLESSIONI E RICORDI. DAGLI INIZI DELLA CARRIERA AI GIORNI NOSTRI, I CAMBIAMENTI E LE SFIDE DELL’ENOLOGIA ITALIAN RACCONTATE DALL’EX AMMINISTRATORE DELEGATO DEL GRUPPO ITALIANO VINI

Italia
Emilio Pedron

“Io son nato in una botte, mio padre aveva una piccola cantina, e non ho mai pensato a un’alternativa a questo mestiere”. Si presenta così Emilio Pedron, classe 1945, che da poco ha lasciato la carica di ad del Gruppo Italiano Vini, gigante da 300 milioni di fatturato e 85 milioni di bottiglie. Una carriera che parte dalla scuole di Enologia di San Michele all’Adige, prosegue alla Chianti Ruffino, in Toscana, fa tappa alle Cantine Nino Negri, fino all’approdo, nel 1971, al Gruppo Italiano Vini. Una storia professionale e umana che ha attraversato tutte le fasi importanti di quella del vino.

Pedron, quali sono le trasformazioni che ha vissuto in prima persona?

“La prima nel 68, con l’arrivo delle denominazioni di origine, anche se ero abbastanza giovane. Da lì è iniziata la grande cavalcata del vino italiano verso la diffusione all’estero. Il vino si doveva in qualche maniera assoggettare a nuove regole e ai disciplinari, e quindi cambiare pelle, perché ognuno prima lo faceva come meglio pensava, e iniziare questo lungo periodo di sviluppo, di crescita, di prestigio e di credibilità, che sicuramente è stato il vero Rinascimento del vino italiano”.

E poi?


“Il secondo step è stato lo scandalo del metanolo nell’86, che è stato vissuto in maniera grande e tragica da tutti, con la presa di coscienza che si doveva cambiar registro rispetto alla serietà degli operatori. E quindi le aziende con credibilità e serietà hanno potuto avere vinta la partita, si sono dimostrate in grado di andare avanti, mentre quelle poco affidabili venivano a mano a mano accantonate. È stata una svolta epocale, del comportamento degli operatori più che del vino come prodotto. Chi era nel settore ha capito che era il momento di fare le cose per bene, di investire in serietà e trasparenza, e questo ha dato uno slancio a chi già lo faceva.
Poi c’è stato un altro momento importante, che riguarda la distribuzione, quasi in contemporanea. Da una parte c’era la diffusione dei “primi prezzi” e dei discount nella gdo, e l’altra parte della grande distribuzione, per differenziarsi dal discount, ha ritenuto che si potesse vendere anche vino di marca e di qualità. Fino a un certo punto c’era il vino da ristorante, il vino di lusso e il vino da supermercato, che era sinonimo di cattiva qualità. Poi c’è stata questa divisione nella grande distribuzione e le aziende più svelte che ne hanno tratto i maggiori vantaggi”.

E siamo a cavallo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90...

“È il momento dell’avvento del vino di qualità nel mondo. Improvvisamente nasce in California, e non in Italia come diciamo noi, il fatto che il consumatore è disponibile a pagare di più per avere vini di qualità maggiore, o che comunque abbiano la percezione di una qualità maggiore. Questa qualità per il Nuovo Mondo erano i vini varietali, dove c’era scritto il nome del vitigno, e per il Vecchio Mondo le denominazioni di origine. Abbiamo vissuto degli anni dove era più difficile ottenere vino di qualità che venderlo. Tutto questo ha portato la reazione, abbastanza pronta, dell’industria, più o meno vera, perché c’è chi l’ha fatto in maniera seria e chi meno, e tutti si sono attrezzati per produrre più vino di qualità. E cosi siamo arrivati alla fine degli anni 90, primi del 2000, dove nel mondo cresce il vino di qualità, al punto che ce n’è di più di quanto sia la domanda.

È qui che iniziano le difficoltà del settore?

“La prima avvisaglia di crisi del settore vitivinicolo c’è stata proprio perché c’era eccedenza di prodotto, non solo di quello “andante”, come è sempre stato, ma anche di quello buono, e quindi una maggior competizione, anche nella qualità. E poi si è aggiunta la crisi economica, che ha messo in discussione la capacità di spendere dei consumatori, che hanno meno soldi, vanno meno al ristorante ecc, e questo ha peggiorato quello che era una crisi comunque già presente nel mondo del vino, dovuta a questa eccedenza di prodotto e ad una competizione sempre più spinta”.

E siamo ai giorni nostri...

“...in cui la crisi economica unita a quella del vino (che pesa più di quella economica secondo me, influisce di più nel nostro settore) viene vissuta dagli operatori in maniera abbastanza disinvolta e spesso anche negativa, e la conclusione più facile da riscontrare è una caduta dei prezzi del vino all’origine: tutti pagano poco le uve, il vino sfuso, abbassano il prezzo della bottiglia. E questo è un fatto molto negativo, un gravissimo danno, perché c’è una perdita di valore reale della filiera vitivinicola italiana, e questa è proprio la discussione dei giorni nostri”.

E quali sono state i momenti più importanti per la crescita del Giv che lei ha vissuto in prima linea?

“Il segreto della crescita del Gruppo Italiano vino è stato sapere reagire bene, prontamente, e a volta anche anticipando le cose che ho detto. Il metanolo ci ha fatto bene, eravamo già un’azienda affidabile, certificata e con tanta trasparenza, quindi abbiamo colto dei vantaggi da subito.
Ci ha fatto abbandonare i vini di primo prezzo che avevamo ancora nel nostro assortimento, e ci ha fatto decidere che il futuro della nostra azienda sarebbero stati i vini di qualità medio alta. Quindi lasciando i vini di prezzo basso, la bottiglia a rendere, il tappo a vite e il tappo a corona.
Nella distribuzione siamo stati forse i primi a offrire le nostre marche alla grande distribuzione europea e a fare progetti di qualità, e sono stati anni di grande crescita del Giv in Inghilterra e Germania con vini di qualità e di prezzo medio alto. Abbiamo cavalcatO bene anche l’avvento della qualità nel mondo, con tantissimi investimenti e serietà nel far aumentare in maniera vera e fondamentale tutta la nostra qualità: reimpianto dei vigneti, cambio delle tecnologie in cantina, tracciabilità. Tutte le nostre procedure sono certificate. Poi, nell’ultimo stadio, prima che arrivassero la crisi economica e la crisi del vino, abbiamo capito che era il momento di investire sul mercato, che vuol dire investire nella distribuzione dei nostri prodotti. Quindi con l’acquisizione di società di distribuzione all’estero e con persone nostre presenti sui mercati esteri, perché era il modo per conoscere meglio i mercati e sapere le loro esigenze, ed essere più forti degli altri, perché a questo punto la competizione, anziché giocarla col prezzo, bisogna giocarla nel servizio e nel sapere di più dai nostri concorrenti. E anche in Italia c’è una grande trasformazione, negli anni 2000, nella nostra rete di vendita, passando a venditori diretti nella gdo, e a una rete di agenti specializzati per la sola ristorazione.Sono cose che si fa presto a dirle, ma sono cose molto importanti: il passaggio da investimenti in vigna e in cantina a investimenti nel mercato. Quindi posso dire che stiamo affrontando la crisi con meno danni degli altri e con maggior sicurezza”.

Come è cambiato, nel tempo, il modo di gestire, di essere manager nel mondo del vino?

“La grande trasformazione ce l’abbiamo negli anni 80-90, ovvero, quando il mercato più importante del prodotto. Il vino va fatto, bisogna avere la capacità produttive e serietà, però diventa più importante sapere dove e come collocarlo incrociando quelle che sono le esigenze dei mercati con quelle dei consumatori. Quindi non basta più avere un grandissimo vino: bisogna o saperlo imporre, oppure adeguare la propria qualità alle esigenze del mercato. E questo è ancora il grande tormento degli operatori vinicoli. Molti pensano di risolvere la questione abbassando il prezzo, ma questo è molto pericoloso, perché vuol dire togliere valore alla filiera e al comparto mandandola spesso in perdita. Oggi gran parte del vino italiano che si vende nel mondo vede qualcuno, all’interno della filiera, che perde i soldi, e questo non va bene, è il risultato dell’incapacità di collocare il prodotto con la copertura completa dei costi e con un margine di valore aggiunto nei posti giusti, al momento giusto e tra i consumatori che lo apprezzano.

Il vino è sempre stato sbandierato come uno dei prodotti più importanti del made in Italy e tra i primi alfieri dell’immagine dell’Italia nel mondo. Ma come è stato supportato, nel tempo, dalle istituzioni?

“Non dico che il vino non abbia ricevuto attenzione. Ma i mezzi e il modo con cui le varie istituzioni hanno supportato il vino italiano nel mondo è stato sicuramente modesto come risultati, e spesso inefficiente come mezzi, nel senso che difficilmente c’è stata la capacità di fare sistema, ma anche di riassumere i bisogni fra produttori grandi e piccoli, denominazioni di maggiore e minore prestigio. Non si è risusciti a fare sintesi delle varie esigenze d’Italia, con grande confusione. È una critica di modalità e di risultato. Poi c’è una critica di sistema, perché tutto viene spezzettato fra mille iniziative, dei comuni, delle province, delle regioni, dei consorzi, dello stato, di Buonitalia, dell’Ice, della fiera di Verona, e non se ne può più, perché ognuno fa il suo pezzettino. Certamente questo non è produttivo, anche perché i mezzi spesi non sono pari ai risultati. Adesso poi siamo alla vigilia di tutti questi soldi che arrivano dalla nuova Ocm, che saranno spesi sul mercato e tolti alla produzione, e io ho seri dubbi che vengano spesi bene, in maniera tale da restituire ai produttori di uva quei soldi che gli sono stati tolti”.

Quale è il ricordo più bello della sua carriera al Giv?

“Come risultato globale, è quando siamo riusciti a entrare con la qualità nella grande distribuzione, e sono stati anni di crescita e cavalcate importanti. Mi sembrava di aver anticipato gli altri di qualche anno. E poi, personalmente, il successo della Cantina Nino Negri dove io ho imparato a lavorare, che quando è entrata nel Giv è diventata famosa e ha avuto successo, anche economico, in una zona in cui ottenerlo in una zona difficile, perché sono vigneti di montagna e tutto è molto costoso”.

Rifarebbe tutto quello che ha fatto?

“Sicuramente si, me lo sono chiesto spesso, Magari eviterei qualche errore, ma si. E quello di cui vado più fiero è che mi pare di aver sempre pensato a un interesse diffuso. Mai solo all’azienda dove ero, ma anche ai produttori di uva che mi fornivano la materia prima, e ai consumatori che bevevano il nostro vino. Ho avuto la fortuna che il Giv non è un’azienda che ha avuto il profitto come interesse primario o unico, seppur ovviamente importante, ma anche lo sviluppo e la crescita del settore rientrava fra gli scopi dell’azienda, me l’hanno sempre lasciato fare, ed è la cosa che mi rende più fiero.

Cosa si augura ora per il vino italiano?

“Due cose: che gli operatori del vino allarghino la loro visione, pensino bene che senza chi produce uva e chi beve vino non c’è futuro, ma sono ancora molto chiusi nella loro fetta di business. Magari così guadagnano più di quanto abbiamo guadagnato noi, ma è comunque un errore di prospettiva. E poi mi auguro che anche dal punto di vista istituzionale si riesca avere una maggiore sintesi e una maggiore unione di quella cha abbiamo avuto fino ad ora. Anche se, avendo speso molto tempo anche in consorzi e associazioni, so che è molto difficile e faticoso, perché l’egoismo è ancora tanto, come l’incapacità di far convergere gli obiettivi. E questo è il grande male del vino italiano”.

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