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CON I PREZZI DELLE UVE IN CALO LA FRAMMENTAZIONE DELLA PROPRIETÀ È DESTINATA A SCOMPARIRE. PAROLA DI EDOARDO NARDUZZI, ESPERTO DI WINE ECONOMY. “PROBLEMA STRUTTURALE, C’È TROPPA OFFERTA. I CONTRIBUTI ALL’ESPIANTO DA SOLI NON BASTANO ...”

Italia
Edoardo Narduzzi

Il mercato del vino italiano, soprattutto all’export, da qualche segnale di ripresa. I prezzi della materia prima, invece, sono sull’orlo del baratro, con quotazioni che, dal Piemonte alla Sicilia, spuntano prezzi che, spesso non ripagano neanche i costi. “È un problema strutturale, c’è troppa offerta rispetto alla domanda, e sarà così anche se la ripresa sarà più decisa”. Ecco l’impietosa analisi di Edoardo Narduzzi, esperto di wine economy, intervistato da WineNews. Senza considerare che “l’anello iniziale della filiera è molto frammentato, perché in Italia la microproprietà è molto diffusa, e continua a spuntare prezzi bassi. Io credo che il pericolo maggiore di ulteriori ribassi sia per le uve destinate a Doc e Docg, che, ad inizio anni 2000, avevano conosciuto i maggiori rialzi e che hanno tenuto un po’ meglio negli ultimi 2 anni, ma che questa vendemmia potrebbero ancora diminuire. Le uve da tavola e gli Igt sono già a livelli tali per cui ed è difficile pensare ad ulteriori diminuzioni”.

In alcune zone, come in Piemonte, molti produttori di uva hanno lanciato l’allarme: la vendemmia 2010 potrebbe essere insostenibile dal punto di vista economico. Cosa si deve fare secondo lei? Aiutare a uscire dal mercato chi non riesce più a starci, o cercare di tenere in vita le piccole imprese in vista della ripresa?

“Anche se ci sarà la ripresa l’eccesso di offerta rimane. E se consideriamo che una parte del Nuovo Mondo, e anche i Paesi Bric, soprattutto Russia, Cina e Brasile, hanno cominciato a impiantare i vitigni per produrre vini di basso costo in maniera significativa, credo che nello scenario di medio termine per i microproduttori diventa veramente difficile che le cose siano remunerative. E se consideriamo anche che la recessione ha creato un effetto, probabilmente permanente, di contrazione dei prezzi, e quindi di erosione dei margini per l’industria del vino nel suo complesso, diventa difficile immaginare un futuro che permetta a tutti i microproduttori di uva di stare sul mercato”.

L’Ocm vino ha puntato sui contributi all’espianto per riequilibrare domanda e offerta. È una misura condivisibile e sufficiente, o servirebbe qualcos’altro?

“I contributi sono condivisibili, anche perché li pagano soprattutto i bilanci di altri Stati membri, come la Germania, più che l’Italia, e quindi per il Paese sarebbe anche un vantaggio finanziario. Ma il problema è che abbiamo un numero di occupati in agricoltura che è leggermente superiore a quello che dovrebbe essere ,visto il livello di sviluppo economico del Paese, e quindi dare il contributo all’espianto risolve solo una parte del problema, perché aiuta la piccola impresa a uscire da un business in perdita, ma non risolve il problema occupazionale dell’agricoltore, che una volta espiantato non ha più nulla con cui tirare avanti il suo reddito. Il contributo all’espianto, o è seguito da un contributo all’impianto di una nuova coltura a seconda delle esigenze dell’unione europea, o lascia un problema di posti di lavoro perduti difficile da gestire”.

Per quello che vede lei, insieme al prezzo delle uve, sta calando anche quello dei terreni in cui sono coltivate?

“Il prezzo dei terreni è correlato, almeno in parte, al rendimento che la vigna riesce a garantire. È anche vero, però, che i terreni di alcune zone di prestigio hanno un valore da “real estate”, ovvero immobiliare, e quindi in parte sono sganciati, nel determinare il loro valore, dalla produzione agricola. Sicuramente i terreni di aziende familiari che non hanno poi capacità di produrre il prodotto finale, imbottigliarlo e portarlo sul mercato, sono destinati a perdere valore, perché chi è in grado di comprarli sono le aziende più grandi della zona che hanno una forza di mercato, non dico tale da fare il prezzo, ma da condizionarlo molto più di prima. I grandi produttori del territorio, in parte, non vedono di malocchio il ribasso del prezzo della materia prima, perché è un modo per riconquistare o ricomporre i margini industriali che hanno perso per la caduta del prezzo del prodotto finale”.

Quindi, al di là delle intenzioni di ognuno, si va gioco-forza verso una diminuzione e una concentrazione delle proprietà?

“È una direzione inevitabile, quella della concentrazione proprietaria e produttiva nella filiera vitivinicola. Altri Paesi, che ormai sono a pieno titolo nella scena internazionale del vino, hanno un’integrazione della filiera completamente diversa dalla nostra, come Australia, Stati Uniti o Cile, che non hanno un frazionamento della proprietà produttiva di base come il nostro. Anzi, normalmente i grandi produttori possiedono anche parecchie migliaia di terreno in cui coltivano direttamente la materia prima. Il caso spagnolo è un po’ a metà strada, però diventa molto difficile la possibilità di conservare le unità produttive di base molto frammentate in un mercato vinicolo globale sempre più complesso per strategie di marketing, di prezzo, di difesa del cliente. E questo già quando il riferimento è nel mercato interno, figuriamoci a livello internazionale”.

Federico Pizzinelli

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