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Una persona su 6, nel mondo, sceglie cibi Italiani. L’export dell’agroalimentare nel 2014 ha segnato un +2,7%, facendo salire il fatturato a 34,3 miliardi di euro. A dirlo i dati resi noti a “Cibus è Italia”, il padiglione di Federalimentare a Expo

Nel mondo una persona su sei sceglie cibi italiani. E il nostro export del settore viaggia veloce: il 2014 ha segnato un +2,7%, facendo salire il fatturato a 34,3 miliardi di euro. Nel periodo compreso tra il 2004 e il 2014 l’industria alimentare ha visto crescere il valore delle sue esportazioni dell’83,8% (quasi il doppio dell’aumento medio dell’export): mentre nel 2004 solo un quinto delle industrie portava i suoi prodotti all’estero, oggi si arriva al 50%. A dirlo i dati resi noti a “Cibus è Italia”, Padiglione di Federalimentare a Expo: “viene esportato il 20,5% della produzione globale alimentare italiana contro il 33% della Germania (che però, in termini di valore aggiunto delle merci, arriva solo a 11 miliardi di euro contro i 24 miliardi dell’export italiano), il 26% della Francia e il 22 della Spagna”.
Su cosa si può far leva per accelerare la crescita? “La forza dell’Italia sta in un sistema produttivo che ha ancora in gran parte una dimensione familiare e che perciò è straordinariamente diversificato: ha mantenuto un legame con il territorio e lo ha trasformato in prodotti di eccellenza - risponde Antonio Cellie, amministratore delegato Fiere Parma - le nostre aziende inoltre sono in grado di fornire prodotti personalizzati, linee dedicate alle esigenze di un committente, anche per mercati di nicchia, senza abbassare la qualità”.
Prodotti a marchio territoriale, biologici e biodinamici fanno da driver, sono apripista per una gamma di alimenti molto ampia. Cellie considera l’offerta italiana di cibi di qualità un “lusso democratico”, qualcosa di simile al prêt-à-porter con cui nella moda ci siamo ricavati uno spazio importante. A tavola la proposta di vini, formaggi, dolci, pasta, ortaggi trasformati e salumi - gli assi del nostro export agroalimentare - riguarda la vita quotidiana più che gli eventi eccezionali.
Una formula talmente di successo da aver scatenato un’emulazione potente: l’italian sounding, gli alimenti presentati come italiani ma prodotti all’estero, è cresciuto del 180% negli ultimi dieci anni. Questo fenomeno vale 60 miliardi di euro, la metà del fatturato dell’industria alimentare italiana (132 miliardi di euro) e quasi il doppio dei 34,3 miliardi di export.
“È questo il terreno da riconquistare per far arrivare entro il decennio le nostre esportazioni agroalimentari a 50 miliardi di euro di fatturato - afferma Carlo Calenda, vice ministro dello Sviluppo economico - il piano straordinario di promozione del made in Italy sta per partire. Gli sforzi saranno concentrati in quattro aree degli Stati Uniti, un Paese chiave per il rilancio del settore visto che rappresenta il primo mercato extraeuropeo e le esportazioni sono cresciute nell’ultimo anno del 6,4%, raggiungendo una quota del 10,9% sul totale. Faremo una campagna di advertising sul valore del made in Italy con un intervento sulla grande distribuzione statunitense per aprire nei supermercati angoli di comunicazione del prodotto italiano. E abbiamo organizzato la partecipazione congiunta di Cibus, Vinitaly e TuttoFood alla fiera FMI, di scena in giugno e alla fiera Fancy Food di San Francisco, nel gennaio 2016, con un intervento di 50 milioni di euro”.

Focus - I principali motivi de l dilagare dell’Italian Sounding secondo Carlo Calenda, viceministro dello Sviluppo economico
Sono tre le ragioni principali che spiegano il dilagare dell’italian sounding secondo il viceministro dello Sviluppo economico Calenda: “il primo è che alcuni prodotti, come i prosciutti made in Italy, negli Stati Uniti si trovano con fatica: solo le grandi aziende riescono con una certa facilità a superare il muro delle barriere doganali, normative e tariffarie che rendono difficile portare prodotti alimentari in America. In questa partita, dunque, il ruolo del governo è fondamentale per il sostegno ai piccoli produttori che stentano ad arrivare in mercati poco accessibili. Il secondo motivo è che la normativa statunitense non riconosce la denominazione di origine controllata, cioè il legame con il territorio, ma dà valore solo al marchio aziendale. Il terzo motivo, infine, è che la comunità degli emigrati italiani spesso ha replicato le ricette originarie producendo all’estero cibi similari, con simbolo e bandiere italiane in etichetta.
Dai dati di Federalimentare risulta che contraffazione (la truffa scatta se si scrive made in Italy su un cibo fatto all’estero) e italian sounding giocano pesante. Negli Stati Uniti sono imitazioni il 97% dei sughi per pasta, il 94% delle conserve sott’olio e sotto aceto, il 76% dei pomodori in scatola, il 15% dei formaggi
: solo un prodotto alimentare su otto di quelli venduti come italiano lo è realmente in tutta la sua filiera”.

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