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L’Italia del vino è ormai sinonimo di qualità nel mondo, e ha un grande futuro che passa dai vitigni autoctoni, che però vanno raccontanti meglio. Anche formando i giovani a farlo”. Così a WineNews, il critico italo canadese Ian d’Agata

Italia
Ian D’Agata

L’Italia del vino è ormai sinonimo di qualità nel mondo, con Toscana Piemonte e Veneto ancora a fare da battistrada ma tanti vini di tutto il Belpaese, soprattutto da vitigni autoctoni, da conoscere e far conoscere ancora meglio nel mondo. Formando i giovani a raccontarlo, costruendo una squadra, perché “l’uomo solo al comando non paga”, puntando più sulla narrazione dei territori che su punteggi e concorsi, “che sono stati e sono comunque importanti”, per conquistare nuovi “fan” del made in Italy enoico, che ormai vale o supera quello francese a quasi tutti i livelli, eccezion fatta, forse, per i vertici assoluti del vino transalpino. Ecco, in estrema sintesi, il pensiero di Ian d’Agata, incontrato da WineNews a Barolo per Collisioni (fino al 18 luglio a Barolo, www.collisioni.it) di cui è direttore creativo del “Progetto Vino”, oltre ad essere direttore scientifico della Vinitaly International Academy, collaboratore di “Decanter”, “Taste Spirit”, “Figaro Vin” e, da poche ore, Senior Editor ed Head of Development for Europe & Asia di “Vinous”, la rivista fondata da Antonio Galloni (“guest star” enoica di Collisioni).
“L’Italia del vino è un marchio di successo - spiega D’Agata, che viaggia costantemente ai 4 angoli del pianeta - conosciuto in tutto il mondo e percepito come di qualità, fa parte davvero del made in Italy. Quando si parla di auto italiane tutti pensano Ferrari, quando si parla di moda si parla di Armani, ma il cibo e il vino italiano sono uno standard, un segno di distinzione, tutti li vogliono nel mondo, e a noi spetta solo il compito di raccontarli e spiegarli al meglio”. Vino italiano che, oltre ad un florido presente, vede davanti un futuro “che è già iniziato - dice il wine writer italocanadese -
quando, ormai anni fa, i produttori italiani hanno capito la grande fortuna non sfruttata che avevano, che era quella dei vitigni autoctoni. Ora è una moda, ma c’è un ragionamento profondo alla base. L’Italia ha 600 vitigni autoctoni, più altri 4-500 non ancora ben identificati, secondo i ricercatori. Sono vitigni che nessun altro ha, e danno sapori e aromi che nessun altro può dare, quindi sono una grandissima ricchezza. Certo, non tutti saranno validi, ma vanno studiati: alcuni li conosciamo davvero da poco. Il futuro è offrire al mondo vini diversi da quelli degli altri, quindi non i soliti Cabernet, Merlot o Chardonnay, che pure sono buonissimi. E questo l'Italia lo può fare”.
Nondimeno, ci sono tre Regioni, Piemonte Toscana e Veneto, che ancora sono identificate come i vertici della qualità del vino italiano. “Bisogna riconoscere i meriti di chi ha lavorato bene negli anni, ed è vero che Piemonte, Toscana e Veneto fanno ancora da battistrada, hanno grandissime uve e grandissimi vini. Il nostro ruolo, di giornalisti e comunicatori del vino, è di far conoscere le ricchezze enologiche di altre Regioni italiane che non sono da meno: ci sono i grandissimi vini dell’Etna in Sicilia, il Pecorino d’Abruzzo, il Vermentino in Sardegna e Liguria, lo Schioppettino del Friuli, il Cesanese del Lazio, che è una specie di perla nascosta, solo per fare degli esempi. Sono vini che hanno tutto per sfondare”.
Insomma, un puzzle articolato quello del vino italiano, e di grandissima qualità. Al punto di mettere in discussione il primato riconosciuto della Francia? “Difficile dirlo, loro hanno una grandissima storia, che gli ha permesso, in passato di fare cose che oggi sarebbero difficili anche per loro. Hanno delle “zonazioni” che sono abbastanza facili da capire e spiegare. Sull’Italia questo è difficile farlo, ci sono interessi commerciali che rendono più difficile spiegare un territorio senza avere dei punti di riferimento. Detto questo, i francesi hanno un clima meno valido del nostro, che è magnifico invece per fare grandi vini dal Nord al Sud. In più, l’Italia è migliorata in qualità, ci sono grandi vini dalla Valle d’Aosta alla Sicilia, e mediamente a prezzi inferiori a quelli dei francesi, e spesso più buoni. Le loro punte di diamante sono eccezionali, forse imbattibili, però è indubbio che il vino italiano regga il confronto a tutti gli altri livelli, e infatti piace”.

E nel futuro, per orientare i mercati e i consumatori, sarà sempre più importante la narrazione dei territori, rispetto ai punteggi della critica e dei concorsi. “Non dovrei dirlo - scherza D’Agata, che è anche presidente di giuria del “5 Stars Awards” di Vinitaly - ma penso che sarà proprio così.
30 anni fa il mondo del vino era complesso, tanti Paesi non bevevano vino. Oggi lo fanno perché lo conoscono, e questa maggior conoscenza è dovuta anche al ruolo che hanno avuto i punteggi della critica ed i concorsi. Questa maggiore cultura del vino però ha fatto anche sì che oggi in molti siano capaci di entrare in un negozio o in un ristorante e giudicare in base al proprio palato. Per questo credo che la narrazione dei territori, più che i punteggi e i concorsi, sia il futuro del vino”.
Parole di chi ha già una carriera lunga e prestigiosa alle spalle. “E di cui non ho ricordi particolarmente significativi rispetto ad altri, se non un Barolo del 1971 che è stato il vino che mi ha spinto a diventare scrittore di vino. La cosa più bella di questo lavoro sono i momenti passanti intorno ad un tavolo con gli amici, viaggiare per il mondo, conoscere persone, che lavorano la terra ed hanno un mestiere in cui credono. Ed è un onore che queste persone mi accolgano a casa loro. Credo che in questo senso il vino sia un “comunicatore sociale””.
Certo è che è difficile coordinarsi tra tanti incarichi. “Ci riesco perché dormo poco - sorride D’Agata - ed è per questo che ho gli occhi piccoli. Battute a parte, io non sono uno che pensa di poter fare tutto. Cerco di costruire rampe di lancio per gli altri. La cosa in cui credo di più è il “progetto giovani” a cui sto lavorando molto, anche grazie a Stevie Kim e alla Vinitaly International Academy, che mi danno la possibilità di farlo. Formo giovani di tutte le nazionalità, ora lavoro a stretto contatto con una canadese, una cinese e un italiano che mi accompagnano in giro per l’Italia, si lavora spesso dalla mattina a mezzanotte, visitando anche quattro cantine al giorno. Ma io ci credo, e credo nel fare le cose per i giovani, che in Italia non fa nessuno. Se io sono qui è perché qualcuno mi ha aiutato, e io ora vorrei restituire qualcosa in questo senso. Il mio obiettivo è che tra qualche hanno le zone che copro per “Vinous”, per esempio, le copra qualcun altro di questi giovani.. Il direttore di Collisioni lo faccio molto volentieri, ma potrebbe farlo qualcun altro. Spero che tra 5 anni sia riuscito a formare altri in grado di farlo, se non sarà così avrò fallito. Non credo nell’uomo solo al comando, ma nella squadra”.

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