Per spirito imprenditoriale e voglia di avventura, ci sono vigneron che, per primi, sono partiti dall’Italia alla conquista di vigneti “vergini” del Pianeta, investendo sogni e capitali in aziende nel Nuovo Mondo, ma anche nella Vecchia Europa, in territori dove gli ettari vitati hanno prezzi più competitivi ed i mercati buone potenzialità, e aprendo nuove frontiere alla viticoltura dei “due mondi”. Sono i pionieri dell’eno-mondo, nelle storie raccolte e raccontate da WineNews, uno dei siti più cliccati dagli amanti del buon bere, perché se è vero che si parla spesso di gruppi e imprenditori stranieri che investono in cantine nei territori più importanti dell’Italia del vino, con il “capital gain” dall’estero tra i filari del Belpaese che appare come un fenomeno inarrestabile (ultimo, in ordine di tempo, Philipp Hildebrand, banchiere svizzero, vice chairman del fondo di investimento Black Rock, a Bibbona, mentre le Tenute dei Vallarino di Gancia, acquistate nel 2011 dall’oligarca russo Roustam Tariko sono tornate nelle mani italiane di Oscar Farinetti e Damilano, ndr), c’è anche chi, tra i produttori italiani, in tempi non sospetti, ha invertito la “rotta”.
I territori da cui sono partiti sono gli stessi in cui oggi si moltiplicano le compravendite internazionali, se solo si pensa al Chianti Classico, da dove, secoli fa, Philip Mazzei, antenato di quella che sarebbe diventata una delle famiglie più importanti del vino toscano, amico di Thomas Jefferson, arrivò in Virginia e piantò le prime viti europee in Usa. Dopo di lui, una schiera di produttori illuminati e coraggiosi, è andata alla ricerca di terroir d’elezione fuori dai confini nazionali, terre “promesse” o già affermate, concretizzando il sogno di avervi una propria cantina. Proprio in Virginia, la “Piedmont region”, come la chiamava Jefferson, già alla fine degli anni Settanta, Zonin1821, tra i più grandi gruppi vitivinicoli italiani, acquista Barboursville Vineyards, dando impulso ad una nuova zona di produzione, piantando il primo vigneto di vitis vinifera dopo Jefferson, in quella che oggi è una Tenuta di 500 ettari, di cui 90 a vigneto, coltivati con vitigni internazionali e varietà italiane come Nebbiolo, Vermentino e Barbera, attorno alla Villa in stile palladiano progettata dallo stesso Presidente americano.
È invece attorno alla metà degli anni Ottanta quando Marchesi Antinori, tra le griffe italiane più conosciute al mondo, inaugura un percorso di espansione oltreconfine, che passa da Antica in California a Col Solare nella Columbia Valley, da Haras de Pirque nella valle di Maipo in Cile alla Tenuta Tuzko Bátaapáti in Ungheria, dalla Meridiana Wine Estate a Malta alla Vitis Metamorfosis in Romania, fino a Stag’s Leap Wine Cellars in Napa Valley, dove tutto ebbe inizio. Lodovico Antinori, tra i personaggi più importanti del mondo del vino italiano, da Bibbona, nel progetto Campo di Sasso, con il fratello Piero, si è spinto, invece, fino in Nuova Zelanda per creare la dependance bianchista Campo di Sasso Ltd a Marlborough, una delle più belle zone del mondo per coltivare il Sauvignon Blanc. Ma seguendo la sua passione per Tokaji, produce anche il Baron de Bornemisza Tokaji Aszu, un progetto in un unico vigneto chiamato “Nyulászo-Király” nel Tokaji-Hegyalja, zona Mád dell’Ungheria.
Masi Tupungato è il progetto di Masi Agricola in Argentina, nella regione di Mendoza, dove una tra le realtà più importanti dell’Italia del vino ha portato uve e tecniche enologiche delle Venezie, in particolare l’appassimento. Argentina dove la Bodega Noemia de Patagonia è l’azienda oltreoceano della contessa Noemi Marone Cinzano, già proprietaria della storica Tenuta di Argiano tra i vigneti di Brunello a Montalcino, da dove il fratello, il Conte Francesco Marone Cinzano, accanto alla Tenuta Col d’Orcia, ha esteso la sua produzione fino in Cile, dall’inizio degli anni Novanta, con Viña La Reserva de Caliboro. Ma le case history sono molte: a partire da Genagricola Spa, la più grande azienda agricola italiana del Gruppo Generali Italia, del cui universo fa parte anche la cantina Dorvena in Romania; dal Piemonte alla Bulgaria, è approdata la cantina Edoardo Miroglio nella Tracia, mentre dall’Alto Adige Hofstätter nella vicina Germania ha ravvivato la storica l’azienda vinicola Weingut Dr. Fischer-Bocksteinhof, a Ockfen lungo l’affluente della Mosella, il fiume Saar, celebre per i suoi Riesling, solo per citare alcuni degli esempi.
Ma creatività e voglia di sperimentare, aprono più di una via agli italiani decisi ad oltrepassare i confini, se si pensa alle tante professionalità italiane, enologi, tecnici, ricercatori e ad ogni livelli dalla produzione alla commercializzazione, che portano il know how made in Italy tra i vigneti più prestigiosi al mondo. Vie a volte, eclettiche, come racconta la recentissima storia del greco Takis Soldatos della società di import di vino in Svezia, Oenoforos, e dell’italiano Mario Calzolari, consulente enoico di stanza in Toscana, impegnati a produrre un vino da uve toscane, in Svezia, con la supervisione dell’enologo tedesco Gerd Sepp. Del resto, dal “ritorno” in Italia di una famiglia italo-americana pioniera dei “due mondi”, i Mariani proprietari di Castello Banfi a Montalcino e dell’importatore statunitense Banfi Vintners, dalla fine dei lontani anni Settanta, la via, per il vino italiano era tracciata: l’internazionalizzazione del settore va a doppio senso.
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