L’Europa è la patria della cultura del vino, al punto che il vino stesso è stato il primo elemento distintivo dell’essere europei (legato all’espansione del Cristianesimo), e nei secoli ha trasformato il paesaggio, salvandolo, soprattutto negli ultimi tempi, quando il valore dei vigneti, almeno nei territori più vocati, ha superato di gran lunga quello di un asset economico storico quali i terreni industriali ed edificabili. È, in estrema sintesi, il pensiero di Philippe Daverio, storico dell’arte, antropologo culturale e tra i più fini uomini di cultura del nostro Paese, intervistato da WineNews, incontrato nei giorni scorsi, nei festeggiamenti per i 50 anni di denominazione del Conegliano Valdobbiadene Prosecco Superiore Docg, a parlare di “paesaggio”. E di come, attraverso le testimonianze lasciate dalle arti figurative, e non solo, il paesaggio, anche quello vitato, sia cambiato nei secoli. “In passato i vigneti facevano parte dell’equilibrio paesaggistico che era quello ritratto nel medievale Buongoverno del Lorenzetti a Siena. Di recente, invece, è successo un miracolo grazie al vino, che ha reso i terreni da vigna più costosi di quelli industriali, salvando il territorio. Oggi sta nascendo un nuovo paesaggio del vino. Ci sono state tre fasi: quella piemontese, con il Barolo e la vinificazione di qualità, poi c’è stata la grande riscossa del Chianti Classico, e poi di recente il boom del Trentino e dell’Alto Adige, dove la vigna si è integrata con l’altro grande “paesaggio economico”, che è quello della mela, e grazie alla vite e mela si è conservato il paesaggio. Il paesaggio di oggi, chiaramente, non è più quello di una volta. Il bello del paesaggio italiano è che è “naturalmente antropizzato, da millenni non c’è più la foresta vergine, e la mutazione del paesaggio è uno degli eventi più importanti che abbiamo avuto la fortuna di vivere”.
Un paesaggio che oggi è diventata una parte importante anche del valore aggiunto del vino. “Una parte della funzione del paesaggio - spiega Daverio - sta anche nella comunicazione, uno pensa alla qualità di un vino anche perchè lo associa ad un determinato paesaggio. E, in questo senso, c’è ancora molto da fare, perchè gli italiani sono “timidi” rispetto ai francesi con i loro chateaux. Che poi gli “chateaux” italiani sono più interessanti di quelle che spesso sono “casette” modeste di campagna che nel Bordeaux vengono chiamate chateaux. Mentre noi abbiamo davvero un paesaggio storico, l’eredità delle grandi ville, abbiamo un paesaggio davvero articolato nei secoli, e dobbiamo lavorarci di più, e capire quanto il recupero del passato può essere un elemento di competizione”.
In questi giorni si parla molto di Europa, e delle sue divisioni, e viene da chiedersi se, almeno nel vino e nell’enogastronomia, si sia raggiunta un’identità ed un linguaggio condiviso. “Sul “linguaggio” dell’enogastronomia molto in Europa è stato fatto, ma soprattutto dai francesi, è l’Italia che è un po’ in ritardo, anche perchè va detto che la scelta di puntare sul vino di qualità è arrivata dopo il metanolo (1986, ndr). Prima chi faceva alta qualità era davvero una percentuale minima di chi produceva vino. Poi è successo questo fenomeno per cui la quantità è calata, ma il fatturato è aumentato. Ma in ogni caso, il linguaggio non è sufficientemente condiviso. E noi siamo stati molto deboli. La stupidità di esserci fatti fregare dall’Ungheria sul diritto di chiamare Tocai il vino del Friuli è emblematica, è la riprova di una nullità di forza a livello europeo che è quasi “criminale”.
Il tema europeo, è anche al centro dell’ultimo libro di Daverio, “Quattro Conversazioni sull’Europa”, e una è dedicata al cibo e al vino, “In vino veritas, in cibo sanitas”. “Il messaggio di sintesi è che l’Europa in verità, è la penisola occidentale dell’Asia fondata sul vino. È un dato oggettivo, noi siamo la cultura del vino. L’Europa è la grande patria del mondo dove con grande abilità siamo stati capaci di recepire cose che venivano da fuori, proprio come la viticoltura. Abbiamo imparato il pomodoro e la patata, siamo stati abili nel prendere e nell’apprendere tante cose, compresa la distillazione, dagli arabi. Senza un buon rapporto con gli arabi non avremmo avuto la grappa. L’Europa si muove, impara di qua e di là, ed è qui la nostra forza”. Un messaggio che va oltre il vino, in un’epoca in cui si torna a parlare di sovranismi.
“Se fossero stati sovranisti gli ungheresi - dice Daverio non avrebbero mai avuto il Tokaj, che a loro è arrivato tramite matrimonio tra una Formentini, di origine milanese, che hanno portato il Tocai in Ungheria all’inizio del Seicento (alcuni documenti del 1630 raccontano che la contessa Aurora Formentini, andando sposa al conte ungherese Adam Batthyany avrebbe portato in dote “300 vitti di Toccai”, ndr)”.
Un messaggio chiaro e semplice, come lo è la condivisione di un calice di vino. “A volte basterebbe un bicchiere di vino - conclude Daverio - per avere la testa più chiara. Sarebbe bello avere più consapevolezza di questa capacità europea di imparare. E dell’importanza del vino, che è stato il primo elemento distintivo dell’essere europei, grazie alla diffusione della cristianità, nella quale, senza vino, non si fa comunità”.
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