Non una disfatta, come si temeva tra aprile e maggio 2020, quando tanti produttori di vino di tutta Italia ipotizzavano un 2020 che si sarebbe chiuso anche a -40% di fatturato. Ma di certo, l’anno della pandemia, è stato durissimo per le cantine italiane: per la maggior parte, i bilanci di fine anno che si stanno definendo in queste ore, ad un primo sguardo hanno registrano un calo compreso nella forbice tra il -10% ed il -20%, con pochissime eccezioni sia in meglio (con alcuni che hanno contenuto il calo nell’ordine del -8%, e qualche realtà molto sbilanciata sull’estero e con una presenza storica su più canali, compresa la distribuzione moderna, che dichiara crescite al massimo del +7%, ) che in peggio (si arriva, in pochissimi casi estremi, al -30%, soprattutto per quelle realtà molto focalizzate su horeca, hospitality in cantina e ristorazione concentrata nelle grandi città d’arte, che hanno visto un tracollo del turismo, internazionale ed italiano). Con i consumi che, in volume, nel complesso, hanno tenuto, a discapito però dei valori. È la fotografia che arriva da oltre 35 cantine italiane tra le più importanti per forza del brand, dimensione, fatturati, storia e presenza nel mondo, che mettono insieme un fatturato complessivo superiore ai 2,5 miliardi di euro (dato 2019), sentite da WineNews.
Un’indagine che, peraltro, ha volutamente tenuto fuori il pur fondamentale mondo della cooperazione, che, come già scritto nei giorni scorsi, sembra aver tenuto bene all’impatto del Covid, con tante realtà addirittura in crescita, ma con bilanci che, come spesso accade nel mondo cooperativo, sono a cavallo tra due anni, e quindi tengono conto di una buona parte di 2019, che era stato di complessiva crescita per il vino italiano, e di un inizio 2020 partito benissimo, soprattutto a gennaio e febbraio, prima che la pandemia dalla Cina diventasse davvero mondiale.
Dalle testimonianze delle imprese, emergono dei trend piuttosto delineati. A “salvare” il bilancio del vino italiano, nella grande maggioranza dei casi, è stato soprattutto l’export, che ha tenuto soprattutto nei mercati a monopolio, come quello del Canada o quelli della Scandinavia, per esempio, e in tutti quelli dove la differenza tra canale horeca e distribuzione moderna, in termini di offerta complessiva, è decisamente meno marcata e polarizzata che in Italia. In questo senso, a fare la differenza, soprattutto in mercati come gli Usa e il Regno Unito, importantissimi per il Belpaese, e dove la ristorazione ha sofferto almeno quanto quella italiana, è stata anche la capacità di importatori e distributori di spostare parte delle vendite da ristoranti e bar a liquor store e supermercati. Altro elemento che è stato decisivo, emerge chiaro è forte, è la multicanalità: strategia organica e storicizzata per pochi, è diventata scelta obbligata per tanti, in un percorso che non si fermerà dopo il Covid, e che porterà molte imprese del vino a ripensare ad una divisione meno netta e polarizzata tra i canali del fuori casi e quelli per il consumo domestico.
Ancora, ad aver limitato i danni per i produttori, è stato lo stop forzato a viaggi ed eventi, che, se da un lato, ha complicato un lavoro, come quello della vendita di vino (e di ogni altro business) che è fatto di incontri, contatti, visiti, degustazioni, fiere e così via, dall’altro, ha portato ad avere risparmi notevoli in questo anno difficilissimo, che, in molti casi, hanno mitigato l’effetto nefasto delle minori vendite.
Capitolo e-commerce: il boom, con aumenti che vanno anche nell’ordine del +300% in alcuni casi, è evidente, e anche se ancora la vendita on-line, sia direttamente gestita dalla cantina che attraverso portali specializzati, nei casi più avanzati vale pochi punti percentuali del fatturato (in media intorno al 2-3%, con punte del 5%), molti sottolineano come questo canale, non solo in Italia, ma anche all’estero, sarà sempre più importante in futuro, perchè entrato nelle abitudini dei consumatori, e pertanto andrà ripensato in termini strategici, come canale strutturale, come horeca e gdo, e non più come accessorio.
Imprescindibile, come sempre, per la tenuta dei bilanci, è stato il marchio delle aziende: come hanno evidenziato anche tutti gli studi in materia, oltre alle testimonianze dei produttori, le cantine che hanno resistito meglio, in Italia e nel mondo, sono quelle con brand storici, ben posizionati, conosciuti e soprattutto rassicuranti, capaci di intercettare la fiducia dei consumatori, fattore che, in questi mesi più che mai, ha fatto la differenza. A fare più male, come noto, è stata la grande crisi della ristorazione, in Italia e nel mondo, e ancora tutt’altro che superata, insieme a quella del turismo in ogni sua declinazione: da quello puramente di piacere a quello di affari, limitatissimo a livello nazionale, se non per una breve seppur importante parentesi estiva, che per quello di affari, praticamente azzerato, così come si è praticamente chiuso tutto il canale rappresentato dai duty free di aeroporti e stazioni, dalle crociere e dalla banchettistica, che per alcune realtà rappresentano voci importanti sui bilanci.Nel complesso, comunque, il danno, che pure è evidente (e che a detta di molti è ancora più consistente per tanti piccoli produttori, ma anche per grandi realtà con brand meno affermati e forti), fin qui è stato assorbito abbastanza bene da un settore che, ancora una volta, si dimostra resistente più di altri.
Ma le preoccupazioni per il futuro non mancano, anche se in molti si sforzano di guardare le cose con un moderato ottimismo. La prima grande incertezza, ovviamente, è quella legata alla gestione dell’emergenza sanitaria, con tutte le grandi limitazioni a viaggi e consumi fuori casa che conosciamo, sebbene l’inizio un po’ ovunque delle campagne di vaccinazione faccia ben sperare. Per la stragrande maggioranza delle imprese, questa situazione caratterizzerà almeno la prima metà del 2021, e molti sperano in un ritorno a qualcosa di simile alla normalità nella seconda parte dell’anno, confidando in uno sprint della ristorazione come quello registrato in Italia dopo la prima fase di lockdown, soprattutto in estate. E se la voglia di tornare a mangiare nei ristoranti ed a visitare i territori di certo non mancherà, è evidente che andrà valutata la reale disponibilità economica nelle tasche dei consumatori. Non mancano poi questioni puramente economiche: sul fronte Usa, per esempio, oltre alla pandemia e alle questione politiche interne, preoccupa la debolezza del dollaro, che potrebbe rallentare l’eventuale ripresa, mentre sul fronte Brexit, se per ora, visto l’accordo tra Uk ed Ue, è scongiurata l’introduzione di dazi, ci sarà da capire come l’economia del Regno Unito risentirà del nuovo status del Paese. Mentre c’è un po’ più fiducia nell’Asia, che sembra aver sostanzialmente superato la pandemia e tornata ad una quasi completa normalità ma che, nel complesso, a parte casi eccezionali, pesa ancora poco sui bilanci delle aziende. Un aspetto che, invece, dà fiducia a molti, è che se nel 2020 gli ordini complessivi nel mondo sono calati, è anche perchè molti importatori e distributori hanno scelto di utilizzare gli stock in magazzino piuttosto che fare nuovi ordini, e questo, in prospettiva, dovrebbe garantire un mercato più “ripulito” e dinamico almeno in una prima fase post pandemia. Mentre un ritorno a livelli pre-Covid, nel complesso, secondo i più inizierà a concretizzarsi davvero solo a partire dal 2022.
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