Dalla “regina” della cucina di Arezzo, la città della misteriosa Chimera, che, “per quanto si faccia un po’ più rara data la lunghezza della preparazione e forse i pregiudizi dietetici”, è da sempre la scottiglia, per la quale “occorre una buona quantità di vino rosso (si usa in genere Chianti o anche semplicemente Sangiovese), a proposito del quale non si deve cedere alla taccagna dicerìa secondo al quale il vino usato per cucinare può essere anche di qualità mediocre”; alle “ceche”, le anguille “poco più che neonate di aspetto ancora gelatinoso (e, poverine, appunto cieche: da cui il nome), rapidamente saltate in padella con olio e salvia”, vanto della cucina pisana che dice di esser “povera” e di saper coniugare mare e terra aggiungendovi l’aristocratica specialità del Basso Valdarno, il tartufo bianco di San Miniato; passando per la cucina dell’aristocratica Lucca, la cui “toscanità signorilmente un po’ “tenuta a bada” si riflette sul cibo”, con i lucchesi che “amano i primi “asciutti” di sfoglia ripiena, ma li chiamano “tordelli”, con la d (non tortelli né tantomeno tortellini), e nel ripieno, con la carne di manzo e di maiale, le uova e la bietola lessata ci mettono il formaggio parmigiano ed - ebbene sì - la mortadella bolognese”. Sono tra gli aneddoti ed excursus storici raccontati dallo storico Franco Cardini, guida d’eccezione degli “Itinerari del Gusto” della Toscana, i percorsi ideati da Artex (Centro per l’Artigianato Artistico e Tradizionale della Toscana) nel progetto Artour Toscana per conoscere i territorio dell’Italia che riapre attraverso la loro storia enogastronomica, dalle cucine di Arezzo, Pisa e Lucca, ai vini di Maremma.
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