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Il Sole 24 Ore

Uva da tavola, avanza la ricerca per la coltivazione fuori terra… Nicchi sempre più grandi, sempre più dolci e, rigorosamente, senza semi: l’uva da tavola è al centro di diversi progetti di ricerca e innovazione made in Italy che tramite miglioramento genetico mirano a coniugare i gusti dei consumatori e la remunerazione dei viticoltori del Paese, ma anche alle prese con stagioni climatiche e raccolti sempre più altalenanti. Motivo per cui sta prendendo piede la coltivazione fuori suolo dell’uva da tavola, mentre sui campi si espiantano i vecchi filari per sostituirli con varietà apirene (senza semi), che rappresentano oramai il 90% dei nuovi impianti e oltre la metà del prodotto raccolto. Non è casuale che l’uva da tavola sia stata scelta quale prodotto simbolo della 41esima edizione di Macfrut (il salone internazionale dell’orto frutta che andrà in scena alla fiera di Rimini dall’8 al 10 maggio prossimo) e quale tema chiave del relativo Simposio internazionale 2024 con la regione Puglia, dato che qui si concentra il 60% della produzione tricolore di “table grapefruit” (circa 1 milione di tonnellate di raccolto annuo, seppur con un calo a doppia cifra nell’ultima stagione). “C’è un interesse globale al miglioramento varietale dell’uva da tavola, che ha raggiunto una produzione di 28 milioni di tonnellate, al secondo posto per volumi dopo le mele su scala mondiale e con un incremento del 19,7% sul 2012: una crescita superata solo da quella del kiwi, che però vale meno di 4,5 milioni di tonnellate. E sono ottime prospettive di sviluppo anche per i prossimi anni, si stima un+5,7% a livello mondiale e un +14% in Europa” dà le dimensioni del mercato Bruno Mezzetti, professore di Breeding e biotecnologie delle colture frutticole dell’Università Politecnica delle Marche e coordinatore del simposio. Anche se a fare la parte del leone è l’Asia (con due terzi della produzione mondiale, di cui 10 milioni di tonnellate solo in Cina) seguita da Sud America (10%) e Africa (9%), l’Italia resta il riferimento nel Vecchio Continente. “A livello mondiale il breeding dell'uva da tavola (l’incrocio e selezione di varietà vegetali per ottenerne delle nuove, ndr) è oligopolio di tre grandi multinazionali, la californiana Sun World, l’anglo-francese Bloom Fresh e l’israeliana Grapa — spiega Mezzetti — ma in Italia ci sono programmi interessanti, che stanno portando avanti l’Università di Catania con la professoressa Alessandra Gentile sfruttando il germoplasma siciliano e l’istituto di viticoltura del Crea”. E poi c’è la sperimentazione dell’Università di Palermo, con il professor Rosario Di Lorenzo (la Sicilia vale un altro 30% dell’uva da tavola prodotta in Italia) per destagionalizzare le produzioni con impianti in “fuori suolo”: “La genetica ha permesso fin guidi creare acini più grossi seppur senza semi (partendo dall’antica varietà persiana apirena, l’uva sultanina), con una maggior gradazione zuccherina, un aroma moscato e diverse colorazioni, ma un altro carattere chiave per migliorare le cultivar è la precocità — conclude Mezzetti —L’obiettivo è anticipare la produzione e adattare le viti ad ambienti climatici sempre più caldi. Con la tecnica del “fuori suolo” si allevano piante invaso con sistemi intensivi e in ambiente protetto, in serra. Ancora non è un’alternativa competitiva rispetto a un impianto in campo aperto, ma lo sarà dato lo scenario di riscaldamento climatico che si prospetta anche in Italia”.

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