Il vino italiano è da sempre un punto di riferimento per la viticoltura mondiale, ma la sua storia non è così conosciuta come quella di altri Paesi, in Europa e in Asia. Per colmare questo vuoto, un team guidato dall’archeobotanico italiano Mariano Ucchesu dell’Università di Montpellier, in Francia, ha analizzato oltre 1.700 antichi semi provenienti da 25 siti archeologici in Italia, coprendo un arco temporale di circa sette millenni, dal Neolitico al Medioevo, scoprendo che la domesticazione della vite in Italia è stata un processo lento e graduale, durato migliaia di anni. Il team voleva monitorare i progressi compiuti dagli esseri umani nel trasformare i semi d’uva selvatici, con semi più piccoli e rotondi e piccole protuberanze appuntite sul seme, note come becchi, in uva domestica, che conteneva semi più grandi con becchi più allungati. Lo studio, intitolato “Tracing the emergence of domesticated grapevine in Italy”, è stato pubblicato sulla rivista scientifica Plos One.
I ricercatori hanno scoperto che inizialmente i semi selvatici erano diffusi tra il Neolitico antico e il Bronzo antico, quest’ultimo datato tra il 2050 e il 1850 a.C. I semi d’uva, o vinaccioli, di questo periodo assomigliavano strutturalmente all’uva selvatica moderna più di quella domestica, il che, secondo il team, potrebbe indicare che le comunità umane raccogliessero principalmente bacche da piante selvatiche. Questa tendenza continuò fino all’Età del Bronzo medio, intorno al 1600-1300 a.C. I ricercatori ritengono che gli esseri umani dell’Età del Bronzo Antico abbiano probabilmente avviato il processo di coltivazione della vite basandosi sui cambiamenti nella forma e nella lunghezza dei vinaccioli risalenti a quel periodo.
“La prima teoria suggerisce che le varietà di uva domesticate siano arrivate in Italia attraverso il commercio con le regioni del Mediterraneo orientale - ha dichiarato Mariano Ucchesu al sito “Popular Science” - sappiamo che le comunità in Sardegna durante l’Età del Bronzo acquistavano rame da Cipro per la produzione di bronzo e che, attraverso questi scambi commerciali, le varietà di uva domesticate potrebbero essere state introdotte nell’isola. La seconda teoria, invece, propone che le comunità sarde abbiano iniziato a selezionare l’uva selvatica, che cresce ancora oggi in tutta l’isola, e abbiano iniziato autonomamente a coltivare la vite, dando così inizio a un evento di domesticazione secondaria”.
Le prime prove di cambiamento si sono avute intorno alla Tarda Età del Bronzo, tra il 1300 e il 1100 a.C. Studiando i vinaccioli d’uva provenienti dai pozzi del sito di Sa Osa in Sardegna, il team ha scoperto che il 45% dei vinaccioli era di origine domestica. Ulteriori analisi comparative hanno confermato sostanziali cambiamenti strutturali nella lunghezza e nella forma dei vinaccioli selvatici dal Neolitico antico rispetto all'Età del Bronzo antico. Il team ha ipotizzato che gli esseri umani della Tarda Età del Bronzo abbiano avviato i cambiamenti più dinamici attraverso la selezione e la coltivazione dell’uva.
Ma permangono alcuni interrogativi, in quanto non si conosce l’esatta ascendenza delle uve italiane moderne e non sono state indagate tutte le regioni d’Italia per questo studio. Intenzionato a raccogliere ulteriori informazioni, il team auspica che gli studi futuri utilizzino approcci multidisciplinari con analisi geometriche, morfometriche e paleogenomiche. La ricerca, finanziata dall’Unione Europea tramite Horizon 2020 e supportata da collaborazioni con il Cnrs-Isem di Montpellier e numerosi colleghi italiani, rappresenta la prima ricostruzione dettagliata della storia delle origini della viticoltura in Italia, inserendola nel più ampio contesto europeo. Ma è affascinante pensare che “con ogni sorso di vino pregiato, si stiano assaporando gli echi di un viaggio millenario, una storia che si è intrecciata nel tempo per giungere al palato” ha dichiarato Mariano Ucchesu.
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