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Affari & Finanza Di Repubblica

Cina, la rivoluzione nel calice ... Wang Xiaoshuai, vincitore del premio della critica a Cannes per Shanghai Dreams, già famoso per Le biciclette di Pechino, è in questi giorni in Toscana per girare Tuscany dreams, un film documentario che, secondo le parole dello stesso regista «vuole svelare il lato nascosto della Toscana, raccontare la vita delle persone e le tradizioni più tipiche, a partire dal cibo e dal vino». Un film che si tradurrà sicuramente in una delle più grandi operazione di marketing per i nostri prodotti. A partire dal vino che, seppure lentamente, comincia a comparire sulle tavole dei cinesi. E’ l’ultimo dei beni di lusso status symbol occidentali, segnale della riscossa della Cina nei confronti dei paesi industrializzati. E i produttori italiani sono partiti alla conquista di questo mercato, ancora piccolo, ma dalle potenzialità incredibili. Soprattutto per i vini di fascia alta, e prezzo elevato. «Vengono a mangiare qui, al nostro ristorante Danieli, e ordinano le migliori etichette italiane, dal Barbaresco Gaja agli Amaroni Masi e Allegrini, senza preoccuparsi del prezzo», racconta Silvio Autuori, italiano, incontrato al Saint Regis di Pechino, uno dei più prestigiosi della capitale cinese, di cui è direttore Food&Beverage.
Ma la moda si sta propagando. «Sono appena tornato da un viaggio in Cina, che frequento da otto anni, e ho visto che ora non è più solo nei ristoranti all’interno degli alberghi a 5 stelle che si consuma vino, ma anche nei ristoranti, occidentali e cinesi», racconta Leonardo Frescobaldi, vicepresidente del gruppo e responsabile estero della Marchesi de’ Frescobaldi. «Il cinese benestante esce, va al ristorante, mangia all'occidentale. Sono tutti segnali che il processo di avvicinamento al consumo di vini di qualità è iniziato. Tutto quello che è occidentale viene visto positivamente».
«Bevete vino, vino rosso, perché fa bene alla salute», così ha detto pubblicamente nel 1996 il premier Li Peng, che ha introdotto da allora il vino quale bevanda ufficiale dei banchetti del partito comunista. Un invito che non è caduto nel vuoto. «Oggi solo lo 0,3% della popolazione consuma vino, ancora poco, ma indubbiamente un progresso rispetto al passato e il trend è destinato a crescere, soprattutto se si incentivano attività di sensibilizzazione, educazione alla cultura del vino». commenta Gian Primo Quagliano, responsabile dell’Osservatorio sul Salone del Vino, la fiera creata a Torino da Alfredo Cazzola, patron dello Smau, che aprirà i battenti il 27 ottobre per chiudersi il 30.
Formare tecnici e sommelier cinesi, educare i consumatori cinesi al buon bere è uno dei perni dell’accordo appena siglato tra la Cantina di Terlano e altri 19 produttori altoatesini con Great Wall, uno dei più grandi produttori di vino della Cina, con giganteschi stabilimenti e grandi vigneti proprio accanto alla Grande Muraglia. «L’accordo prevede oltre allo scambio di know how una grande campagna stampa sui media cinesi per pubblicizzare i nostri vini. Il costo sarà sostenuto dalla stessa Great Wall», racconta Klaus Gasser, direttore commerciale della Cantina di Terlano.
Cambiare le abitudini non è facile. Per tradizione i cinesi a tavola bevono tè oppure baijiu, un distillato ad elevato tasso alcolico. Oggi nei grandi ristoranti di Shanghai, Pechino del Guandong e della stessa Hong Kong capita spesso di vedere cinesi, colti e benestanti che accompagnano piatti occidentali o orientali con la Coca Cola piena di ghiaccio, la bevanda che è stata uno dei primi simboli di occidentalizzazione. Ma non è solo un problema di abitudini, ma anche di cultura del cibo.
«Il grande ostacolo alla diffusione del vino sulle tavole cinesi è la difficoltà dell’abbinamento, il modo di mangiare dei cinesi prevede che molte pietanze vengano servite insieme, carni e pesci, cucinati diversamente e con sapori a volte contrastanti», racconta durante un incontro a Pechino Alberto Fernandez, direttore della Torres China, la divisione cinese con sedi a Shanghai, Pechino e Guangzhou del più grande produttore di vini spagnolo, creata per vendere le sue etichette e distribuire anche una rosa scelta di cantine di altri paesi europei. Qualcuno sta già lavorando su questo versante. «Abbiamo presentato piatti cinesi in abbinamento ai nostri vini, per esempio l’anatra alla pechinese si sposa bene con l’amarone», racconta Marilisa Allegrini, titolare dell’azienda Agricola Allegrini di Fumano di Valpolicella, vicino Verona già da tempo presente con le sue etichette sul mercato cinese, che da tempo propone incontri con abbinamenti cino cinesevino italiano.
Gli spagnoli, insieme ai francesi, sono ai primi posti per export in China, dicono le rilevazioni di Marketandresearch. Seguiti a ruota dagli australiani. E tra Shanghai e Pechino è un rincorrersi di iniziative per educare al vino, ma anche per capire cosa piace e cosa no ai palati cinesi. Degustazioni che si tengono in alberghi o locali alla moda, dove è tutto un roteare di bicchieri, aspirare, provare. L’ultima tendenza sono i winebar, che stanno prendendo piede anche nelle grandi metropoli asiatiche. Una moda da cavalcare subito. «Abbiamo aperto una brachetteria, winebar specializzato in Brachetto d’Acqui, a Shanghai e ora puntiamo su Pechino e nelle altre metropoli orientali», racconta Lamberto Vallarino Gancia, quinta generazione della Casa Gancia. Spiega Vallarino Gancia: «Il Brachetto, vino frizzante dolce, risponde bene ai gusti delle popolazioni orientali che amano il dolce. Già in Giappone siamo al primo posto per vendite con l’Asti».
Rispetto ai francesi e agli spagnoli arriviamo in ritardo sul mercato cinese. Ma non mancano gli italiani illuminati che invece hanno puntato sulla Cina da tempo. Il primo a comprare e sviluppare un vigneto, nel 1998, è stato Sella & Mosca, oggi di proprietà della Campari: duecento ettari a Pingdu, un villaggio remoto dello Shandong. Una piccola realtà rispetto al grande impero Campari, la cui produzione è destinata esclusivamente al mercato cinese. «Catai, la nostra etichetta, è l’antico nome della Cina», racconta Gabriele Scapin, il direttore della sede cinese, nel corso di una visita ai vigneti. Da venti anni in Cina Scapin conosce bene il mercato e la Catai ha ricevuto diversi riconoscimenti. Lo Chardonnay è stato riconosciuto miglior vino cinese alla fiera internazionale del vino di Pechino del 2002. Ma ci sono anche Cabernet e Merlot. «Importante per i cinesi è anche la veste, la bottiglia: questa linea con un’etichetta molto elegante, con il rosso predominante, è per i night club», spiega.
In primavera di questo anno è approdato in Cina anche il gruppo Illva di Saronno, che ha comprato una grande quota della Changyu, il più grande produttore cinese di vino, con uno Chateau e un museo del vino a Yantay, nella costa nord dello Shandong: una realtà consolidata, con 100 anni di storia, quotata alla borsa di Shenzen. Ma il vino in Cina si vende anche nei supermercati. E accanto alle etichette internazionali, compaiono anche quelle cinesi, spesso a prezzi altamente competitivi. Non sempre si tratta di vini di qualità. Ma i produttori cinesi stanno spingendo molto, creando nuovi insediamenti, e il vino, che prima si produceva solo nello Shandong, ora si fa anche in altre regioni. Si prepara il boom, anche per le fasce di mercato più basse?«Stiamo valutando con grande attenzione, abbiamo preso i primi contatti, e fatto dei test con catene di supermercati e un network di ristoranti cinesi», racconta Sergio Dagnino, direttore generale di Caviro, big del vino da tavola, con un portafoglio focalizzato sui prodotti di massa, dal Tavernello al Castellino, ma di qualità, con un punto di forza nell’ottimo rapporto qualitàprezzo. «La Cina è prima per consumi di prodotti in tetrapack», dice Dagnino. Perché, dunque, non provare anche con il vino?

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