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Affari & Finanza / La Repubblica

Il risveglio del Chiantishire il supervino diventa un network ... Il nuovo consiglio di gestione del consorzio vino chianti ha iniziato a invertire la rotta: tornano a salire le vendite e ora si punta a riattivare la filiera. Più accordi con il territorio anche per sviluppare l’indotto turistico ... “Abbiamo iniziato il nostro road show in Italia e nel mondo, per far capire ai consumatori che il Chianti non è solo la bottiglia su uno scaffale, ma un prodotto di aziende storiche, con la loro tradizione, la loro caratteristica, i propri profumi e aromi. Inonderemo il mondo di Chianti”: Giovanni Busi, presidente del Consorzio del Vino Chianti è alla testa del nuovo consiglio digestione che suona la riscossa del Chiantishire. Il distretto vitivinicolo più famoso d'Italia, quello che ha fatto storia sulle tavole del mondo, era finito ultimamente nel cono d’ombra di vino da supermercato, spesso venduto a prezzo basso, surclassato da nuove etichette, più agguerrite, più innovative che hanno portato sulle tavole del mondo altri vitigni, altri territori. Un bene per la nostra economia, così ricca di produzione vitivinicola. Ma per il Chianti, che ha vissuto sugli allori, è arrivata l’ora ridare lustro a quello che, nonostante gli alti e bassi, resta comunque uno dei simboli più prestigiosi del Made in Italy, come rileva una recente indagine di Astra Ricerche: ne emerge che nell’immaginario collettivo è intensa e ben chiara la realtà delle dolci colline e dei paesaggi d&ve frotte di americani, tedeschi, e nord europei si sono riversati per anni, a degustare, mangiare bene e rilassarsi. Le mode passano ma tutti, indistintamente, identificano il Chianti con la Toscana, molti l’hanno bevuto, e chi non l’ha mai provato lo conosce comunque come fama e localizzazione. Una notorietà che arriva lontano: basti dire che uno degli ultimi resort del lusso costruiti sulla baia di Hong Kong si chiama proprio “Chianti”. Ma cosa manca allora a questo brand per ritrovare tutto il suo splendore? Forse proprio il fatto che è diventato talmente ampio da non contenere più nulla, non più una identità specifica, ma un simbolo tout court, che dice tanto ma rischia di non stupire più. Un vino da “mass market”, che non piace ai giovani, proprio la fascia più dinamica del mercato, i clienti del futuro. “Vogliamo tornare a far parlare di Chianti Valley, di un territorio e di una denominazione, la Docg più grande d’Italia che vuole tornare a essere un prodotto di qualità capace di emozioni forti e durature”. Per l’affondo iniziale, un’Anteprima, alla francese, a Palazzo Borghese, nobile residenza del 1400 nel cuore di Firenze, dove è stato schierato un plotone di 50 etichette, come Malenchini, Lanciola, Corbucci, Castello di Poppiano-Guicciardini, Fattoria Sant’Andrea, da agricoltura bio e biodinamica, Badia di Morrona Chianti “I sodi del Paretaio” Fattoria di Poggio piano, Fattoria di Poggio Capponi, tanto per citare quelle che hanno entusiasmato i degustatori. La prima linea, destinata a tirarsi dietro tutto l’esercito di viticoltori del consorzio, 2.650 che insieme producono vino per 200 milioni di euro. Senza contare l’imp atto su tutta la filiera del territorio, tra turismo ed enograstronomia. Gli associati coprono insieme oltre 10.000 ettari vitati, sui 15.000 totali, e si distendono lungo i Colli aretini, i Colli fiorentini, i Colli Senesi, le Colline pisane, Montalbano, Rufina e Montespertoli, l’ultimo arrivato. Il minimo comun denominatore resta il Sangiovese, il vitigno base del Chianti. C’è chi lo fa in purezza, ovvero al 100%, e chi invece aggiunge Canaiolo, Trebbiano o Malvasia, nelle percentuali fissate dal disciplinare. Tutte le sottozone fanno capo al Consorzio Vino Chianti, meno una: il Consorzio del Chianti Classico, quello per intenderci identificato dal Gallo Nero. Una divisione degna delle storiche guerre di campanile toscane. Il Chianti, finito il letargo, oggi è in pieno fermento. Il rientro di Piero Antinori nel Consorzio Chianti Classico è un segnale di prestigio che si riverbera su tutto il territorio, impegnato oggi a fare reimpianti di viti, a rialzare qualità e anche prezzi, finiti negli ultimi tempi a livelli discount. E gli investimenti sul territorio cominciano a dare i primi frutti. Le vendite all’estero del Chianti negli ultimi fatto registrare una crescita, e nei primi due mesi del nuovo anno l’incremento è stato del2,6%: “Stiamo tornando a vendere”, commenta Busi. Certo, la crisi ha cambiato stili di consumo. Ma cavalcando le nuove tendenze il Chianti è in piena rinascita. Fanno da traino le etichette di punta del territorio, come il Nipozzano, un Chianti Rufina, prodotto dai Marchesi Frescobaldi, tra i primi 10 vini al mondo per Wine Spectator, magazine che seppur criticato resta una delle Bibbie del settore. Chigi Saracini, di proprietà di Mps Tenimenti, è un altro brand apprezzato dalla critica.
In questa era di terroir, cm, la parcellizzazione premia, ma in termini di ritorno economico. Secondo un recente studio effettuato da Robin Cross, Andrew J. PlantingaeRobertN. Stavins, membri dell’American Association of Wine Economist, sulla Willamette Valley dell’Oregon i prezzi risultano fortemente condizionati dalle sotto-denominazioni d’appellazione, mentre la specificità assoluta dei singoli siti è ininfluente. Come dire, fatti un nome e vendilo bene. Ma se tante appellazioni fanno salire il valore della bottiglia, la giungla di sigle rischia di mandare il tilt il consumatore. Perciò, ferma restando la differenza, meglio presentarsi uniti sotto un cappello comune. Ridando lustro all’unico grande marchio che finora ha avuto la forza di vincere sul mercato globale: “Chianti”. Il nuovo logo è già in cantiere.

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