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Agroalimentare e politica, appunti per il Governo: l’intera filiera del “made in Italy” agroalimentare espone le sue istanze per la prossima, imminente legislatura, a Torino dal palco del “Festival del Giornalismo Alimentare” n. 3

Andando oltre l’epidermide del nuovo record nell’export agroalimentare italiano nel 2017, quei 41 miliardi di euro che, giustamente, inorgogliscono l’intera filiera di una delle voci più importanti della manifattura e della bilancia commerciale del Paese, emergono istanze e necessità alle quali non può rispondere che la politica, sia a livello nazionale che soprattutto comunitario: è, con questo spirito, che, oggi si sono aperti i lavori del “Festival del Giornalismo Alimentare” n. 3 (Torino, 22-24 febbraio, www.festivalgiornalismoalimentare.it), alla presenza dei rappresentanti di vertice dei portatori di interesse di tutto il microcosmo che sta dietro l’etichetta di “made in Italy” agroalimentare. Ad aprire quella che, nei fatti, è stata una somma di “lista dei desideri” e ammonimenti nei confronti di quello che, sperabilmente, uscirà dalle urne tra meno di due settimane come un Governo capace di prendere decisioni durature e nel pieno dei propri poteri è stato Luigi Scordamaglia, presidente Federalimentare, che ha posto l’accento in apertura sul paradosso di un Paese che, pur essendo uno dei più in salute del mondo, manca di “un’informazione sull’alimentazione affidata a chi ne capisce, non all’ultima delle soubrette o dei cuochi, col risultato di avere italiani incerti: 450.000 italiani sono ortoressici, e 3 su 10 credono che i prodotti “gluten free” facciano dimagrire, quando è l’opposto”.
Dopo questa forse quanto mai necessaria lode al metodo scientifico rispetto allo strapotere del sentito dire e delle mode alimentari, Scordamaglia ha sottolineato il fatto che l’agroalimentare tricolore è in un ottimo stato di salute: “siamo tornati ai valori di produzione del 2007, con la manifattura che è ancora 20 punti sotto, e l’export è da anni in crescita. Il mercato interno, però, non solo soffre ancora un po’, ma si sta polarizzando, e si sta allargando in maniera preoccupante il gap fra la fascia “golden” (che cresce dal 12 al 16%) e quella “low price”, ovvero di coloro che devono peggiorare la loro alimentazione a causa del basso reddito disponibile. Però”, ha sottolineato il presidente di Federalimentare, “a frenarci c’è innanzitutto l’“Italian sounding”, che muove tra i 60 e 100 miliardi di euro, e si combatte con la narrazione dei territori e della tipicità dei nostri prodotti quanto con la tutela legale. E su questo il Paese vive troppo di ideologia: gli accordi bilaterali servono e sono necessari, ma non possono essere affidati a incompetenti, vedi quello che è successo con quello con il Giappone o con il Ceta.
Quindi, al nuovo Governo chiediamo, in sintesi, un’azione trasversale sulla burocrazia, che è la priorità numero uno, e di rendere strutturale il piano straordinario per il “made in Italy”. E’ poi necessario razionalizzare le strutture e accorpare il turismo con il cibo, oltre a migliorare l’azione della politica italiana in Europa sulle indicazioni geografiche: e dobbiamo anche migliorare la formazione, dato che l’agroalimentare è un settore che nei prossimi cinque anni offrirà lavoro a 45.000 addetti, dei quali 6-7.000 laureati e 12-15.000 laureati, senza contare che un’immigrazione non incontrollata e formata potrebbe aiutare per la carenza prevedibile di manodopera”.
La lista dei desideri della grande distribuzione, invece, è stata affidata a Marco Pedroni di Coop Italia, per la quale la legislatura prossima ventura dovrebbe parimenti “svolgere un ruolo forte e attento alla tutela della voce degli interessi dell’Italia, delle sue eccellenze e delle sue buone pratiche, in ambito comunitario, perché è lì che si vincono le vere sfide. Ci sono vincoli che ci obbligano a fare scelte insieme: in Europa siamo più di 400 milioni di persone senza contare il Regno Unito, ed è ovvio che i punti di sintesi sono una mediazione, ma è lì che bisogna agire, anche perché di quei 41 miliardi di export, 27 vengono da paesi Ue”.
Un punto di vista forse non altrettanto di spicco, ma sicuramente importante, è invece quello delle associazioni che tutelano i consumatori come Altroconsumo, per la quale, ha affermato Franca Braga, “la priorità è quella di un’etichettatura più chiara e utile. Dobbiamo farne un modello nazionale nostro, che rispetta le caratteristiche della produzione, sennò le faranno, come le stanno già facendo, i supermercati, e il consumatore non saprà più a chi dar retta. Anche perché”, ha aggiunto amaramente, “nel carrello la “sacra” dieta mediterranea non la segue più nessuno. Guardiamo i dati: il 21,3% dei bambini è sovrappeso, e il 9,3% obeso, quindi serve più informazione basata su dati scientifici, e un quadro normativo in grado di coprire tutte le problematiche con controlli adeguati: controlli che ci sono in Italia, ma vanno resi più efficienti. Il nostro servizio veterinario ce lo invidia il mondo, non distruggiamolo”.
Di scienza, d’altro canto, si vive - e della sua mancanza si muore - come non mai nella società moderna, e anche gli esponenti dell’Istituto Zooprofilattico di Piemonte, Liguria e Valle D’Aosta e dell’Istituto Superiore di Sanità Maria Caramelli e Umberto Agrimi hanno rimarcato la necessità di avere “più scienza nel cibo, e di collegare di più la pancia e la testa”, ha esordito Caramelli. “Le politiche della ricerca devono entrare nella discussione pubblica in modo strutturato, e rispondere all’obiettivo del consumatore, ovvero il diritto alla salute alimentare, quanto del produttore. Dobbiamo parlare di più con i produttori: usiamo di più la genomica per sapere cosa si mangia, se non si vogliono contaminanti servono metodi più efficaci per individuarli. Ho seguito molte crisi alimentari, e creano un crollo di fiducia: l’Unione Europea si è data un linguaggio comune di sicurezza, ma solo da noi è successo un fallimento comunicativo completo, dove prima si è tranquillizzato a priori, poi i fatti hanno smentito la politica e quindi il cittadino si è sentito preso in giro”. Una sicurezza alimentare che senza scienza non esiste, ma che non esiste nemmeno senza un quadro normativo, e del diritto, che sia al passo coi tempi, ed in questo senso suonano molto amare le parole di Gian Carlo Caselli, Presidente del comitato scientifico dell’Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare: “oggi l’agroalimentare “tira”, ed è un architrave dell’economia italiana, ma di conseguenza attira farabutti e mafiosi, e la legislazione è inadeguata, si rischia poco con guadagni imponenti.
Il sistema vigente è debole, prevalentemente orientato a proteggere la proprietà industriale e intellettuale, e solo marginalmente attento al contrasto delle frodi. Nel 2015”, ricorda lo storico magistrato antimafia, “il Ministro Orlando aveva istituito una commissione che ha elaborato un progetto di 49 articoli, e il Ministro l’ha portato in Consiglio dei Ministri, che l’ha approvato nel dicembre del 2017. Ma - e questo francamente non lo capisco - è arrivato alle Camere solo 24 ore dopo il loro scioglimento. C’è da rimanere sconcertati: l’impressione è che ci sia qualcuno che frena, che preferisce le istanze corporative a una dialettica trasparente e a una necessaria contrapposizione di orientamenti per il bene comune. Si dice che le regole inceppino il libero dispiegarsi dell’economia, ma questo è falso: si considera il cibo come merce e non come bene comune, quindi se la riforma dei 49 articoli non va avanti, a perderci saranno i cittadini. Se la normativa vigente non funziona”, ha concluso Caselli, “e ha lacune, in quelle lacune ci si infileranno la criminalità e anche la mafia, e non ce lo possiamo permettere”.

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