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ANTINORI, RIVELLA, ZONIN: "DICOTOMIA SUL MERCATO DEL VINO"

Italia
Piero Antinori

E’ il Vinitaly dei record: boom di aziende, celebrazione dei primati del vino italiano che straccia i francesi in quantità, che sfonda il muro dei 5000 miliardi incassati all’estero, che insidia i cugini d’Oltralpe, anche sul terreno della qualità. Eppure di fronte a tanta “euforia” i produttori più avvertiti e i critici più puntuali si pongono un interrogativo “manzoniano”: è vera gloria

A guardare bene, se le luci della ribalta sono accese sui supertuscan’s, sui grandi piemontesi, sugli emergenti siciliani, sui bianchi friulani, sul Sagrantino e alcuni produttori di Marche e Abruzzo, ci sono molte ombre che si proiettano sul sistema enologico nazionale. Sono le gravi difficoltà in cui versa il cosiddetto vino comune. I segnali di questa crisi stanno tutti dentro le cifre del comparto, sol che le si guardi con un occhio meno incline al trionfalismo. E’ vero che il fatturato complessivo del settore è arrivato a 16.000 miliardi, ma è anche vero che, a questo fatturato, contribuiscono in misura sempre maggiore i Docg, i Doc, gli Igt, con prezzi in decisa impennata (in alcuni casi, si sfiora un incremento del 20 %), ma è del pari vero che il prezzo dei mosti e dei vini comuni è ormai fermo da tre anni. Lo stesso vale per l’export: abbiamo venduto meno vino in quantità, ma abbiamo incassato di più. La contrazione di domanda è stata tutta concentrata proprio sui vini comuni e sfusi, quelli che un tempo si vendevano per i tagli e che oggi sono seriamente insidiati dalla concorrenza dei mosti e dei vini comuni provenienti dai paesi emergenti eroicamente. La bilancia estera va in forte attivo solo sulla spinta dei vini di fascia medioalta ed alta che sono peraltro fortemente remunerati. Così si può dire che l’Italia del vino è divisa in due: da una parte le nostre grandi etichette sono in fortissima ascesa, dall’altra il vino comune sta diventando un fattore di debolezza del sistema. A notarlo sono imprenditori vitivinicoli di primo piano come il marchese Piero Antinori, l’uomo che ha creato il Solaia - la bottiglia del primato mondiale italiano - ma che ha anche linee di produzione di fascia media. “E su queste la sofferenza - sostiene - si vede e la concorrenza dei paesi emergenti si fa sentire pesantemente. Insomma se ci fossero superpetroliere di Solaia si venderebbero tutte e assai più care del greggio degli sceicchi, ma le cisterne di Trebbiano restano sui piazzali. Anche perché dal Cile, dal Sudafrica, dall’Argentina, dall’Australia arrivano vini di fascia bassa a prezzi più bassi di quelli italiani. Un allarme sul vino comune lo lancia anche Ezio Rivella - il creatore della Banfi, enologo di fama internazionale - il quale sostiene che per “l’industria del vino, per gli imbottigliatori di massa, il boom del made in Italy non c’è stato e questo rischia di creare dei disequilibri nel sistema”. E anche Francesco Zonin - il figlio di Gianni, il più importante industriale vitivinicolo italiano, sales manager del gruppo - nota che “mentre sui vini di qualità abbiamo un problema di eccedenza di domanda rispetto alla nostra offerta, sui vini comuni - anche imbottigliati - siamo in una situazione opposta”. Una conferma indiretta viene dal fatto che le grandi cooperative di vinificazione stanno creando linee di fascia più alta proprio per far quadrare i bilanci e supportare con una potenziale domanda di vini di pregio la svendita del vino comune. Emblematica a questo proposito è la situazione della Sicilia che se da una parte ha conquistato fette di mercato impostanti nell’eccellenza, dall’altra continua a produrre vino da inviare alla distillazione obbligatoria che è l’unica fonte certa di remunerazione per la viticoltura massiva. Che ci sia questa contrazione di mercato per il vino comune, è testimoniato anche dal tuttora florido mercato dei diritti di reimpianto e dalla contrazione della superficie vitata che, in 5 anni, si è ridotta di 200.000 ettari, attestandosi oggi sui 800.000 ettari.

Ma la crisi del vino comune non riguarda solo l’Italia: anche la Francia deve affrontarla e se alcune zone vitivinicole come la Languedoc, la Provenza, l’alata Cote du Rhon riconvertendo i vigneti (qui si è massicciamente piantato Tannat) hanno cercato di arginare la loro crisi, altre zone stanno invocando la distillazione obbligatoria per fare fronte alle eccedenze.

Il punto ora è come uscire da questa dicotomia del mercato e da questa impasse della nostrana vitivinicoltura, ben sapendo che un’enologia forte non può basarsi soltanto sull’eccellenza che anzi rischia di ghettizzarsi, se non è seguita e supportata, da una produzione media vendibile. Alcuni grossi importatori, infatti, quando chiedono vino d’eccellenza e non ne trovano a sufficienza si rivolgono non ad altre bottiglie italiane per soddisfare la loro domanda ma fanno diventare decisivo il prezzo e lì si inserisce la concorrenza dei “vigneti emergenti”. Le soluzioni possibili al momento sembrano di due ordini: uno molto tattico, l’altro strategico. Quello tattico è di puntare a far diventare l’etanolo un additivo antinquinante delle benzine e perciò di dare sfogo di mercato alla distillazione obbligatoria. Questo - com’è intuibile - risolve a breve l’emergenza del vino comune, ma non crea né enologia di qualità né prospettive di sviluppo. La seconda strada è quella di puntare sempre di più sui vitigni autoctoni per neutralizzare il fattore prezzo (i nostri vini comunque costeranno più cari alla produzione che non quelli di paesi a viticoltura estensiva e totalmente mecanizzata) con la peculiarità del prodotto. Così facendo si può trasformare in vino non comune anche quello che non vincerà mai i trofei internazionali.

Redazione Winenews

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