Chiamare le cose con il loro nome: un concetto chiaro e semplice, o forse no. Perchè, in fondo, ruota tutto intorno a questo il voto di domani all’Europarlamento che, semplificando al massimo, stabilirà se prodotti di sintesi di laboratorio o derivati da materie prime vegetali rielaborati a mo di salumi e simili, possano essere chiamati in etichetta “carne”. È evidente che non si tratta di una critica a gusti e stili alimentari, ma all’utilizzo di termini che molti considerano impropri ed ingannevoli. Un principio, in qualche modo, fissato già per il mondo del latte, quando nel 2017 una sentenza della Corte di Giustizia Ue aveva chiarito che i prodotti di origine non animale non possono presentare la dicitura “latte”, “yogurt”, “formaggio” o “burro”, come, per esempio, avvenuto per anni con il cosiddetto “latte di soia”, rimasto poi nel parlato, ma che in etichetta deve chiamarsi “bevanda a base di soia” o diciture simili. E ora gran parte del mondo agricolo si aspetta che domani vada in questo senso il voto del Parlamento Ue, che dovrà pronunciarsi sulla proposta di immettere sul mercato prodotti di origine vegetale con denominazioni che sono proprie di prodotti di origine animale (salsiccia, hamburger, bistecca). Una pratica che, come ricordato nei giorni scorsi da Coldiretti, “inganna il 93% dei consumatori”, e a chi ribadisce la propria contrarietà Confagricoltura, guidata dal riconfermatissimo presidente Massimiliano Giansanti (nel nuovo esecutivo ci sono ben tre imprenditori del vino: Lamberto Frescobaldi, presidente della storica cantina toscana e consigliere dell’Accademia dei Georgofili, Marco Caprai, vitivinicoltore e leader del Sagrantino di Montefalco, Giordano Emo Capodilista, imprenditore vitivinicolo veneto): “oltre ad utilizzare questi termini “impropri” - evidenzia la più grande organizzazione delle imprese agricole italiane - alcuni operatori del settore alimentare adottano strategie di marketing che in molti casi inducono in confusione, perché presentano prodotti vegani o vegetariani come del tutto equivalenti ai prodotti di origine animale. Nelle passate settimane Confagricoltura aveva anche scritto agli europarlamentari esortandoli a confermare l’emendamento originale - fortemente sostenuto dall’Organizzazione ed espresso nel voto di aprile 2019 - e a non accettare compromessi a riguardo, nell’interesse dei consumatori, ma anche dei produttori del settore zootecnico, portabandiera del Made in Italy agroalimentare. I consumatori hanno il diritto di scegliere i prodotti che desiderano - ribadisce Confagricoltura - ma devono poter basare la propria scelta su informazioni affidabili che riflettano correttamente le caratteristiche del prodotto. Spesso, invece, queste informazioni si rivelano ingannevoli. È importante ricordare che ciascun alimento ha le sue proprietà e caratteristiche nutrizionali, che dipendono dal tipo di ingredienti utilizzati. Per questo motivo - conclude l’Organizzazione degli imprenditori agricoli - l’uso dello stesso termine per denominare prodotti appartenenti a categorie alimentari diverse deve essere evitato, per consentire un corretto confronto al momento dell’acquisto e garantire un’informazione trasparente”.
Un tema che sembra chiaro e semplice, nel concetto, ma nella pratica è decisamente complesso, e chiama in causa grandi tematiche, come la sostenibilità ambientale della produzione di carne, da un lato, ma anche gli interessi economici di un’industria che muove cifre vertiginose: secondo un report dell’agenzia Polaris Market Research, il mercato della “carne a base vegetale” a livello mondiale, nel 2019, ha mosso un giro d’affari di 11,1 miliardi di dollari, e da qui al 2027 le stime parlano di una crescita aggregata del 15,8% all’anno, per arrivare a toccare il valore di 35,4 miliardi di dollari.
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