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Corriere Della Sera / Io Donna

Nelle vigne dei cento passi ... A dieci anni dalla legge che assegna alle cooperative i terreni confiscati ai boss siamo andati a vedere i risultati. Trovando un vino doc che avrà un’etichetta impegnativa. E una donna in carrozzina che con un gruppo di ragazzi sfida le leggi dell’economia. E l’indifferenza di molti ...
Tra filari del giovane vigneto nelle campagne di San Giuseppe Jato, pochi chilometri sud di Palermo, si celebra un piccolo evento. Confortati dalle previsioni degli esperti, i ragazzi della Cooperativa Placido Rizzotto azzardano: “Sarà un’ottima annata”. Duecento quintali da qui alla primavera del 2007, si trasformeranno in 15-20mila bottiglie. Un rosso con venature rubino, corposo, ad alta gradazione, il principe dei vini autoctoni siciliani: il Nero d’Avola. Questo vino, però, avrà un nome che è un messaggio: Centopassi. È preso in prestito dal film di Marco Tullio Giordana che parla del giovane Peppino Impastato, ucciso nel 1978 in un agguato mafioso: cento passi era la distanza che separava casa sua da quella del boss Tano Badalamenti. In Sicilia più che altrove i nomi sono pietre. E in queste terre, confiscate alla mafia e date in comodato a cooperative come la Rizzotto, pesano e colpiscono ancora di più. Ora il sogno di Placido, sindacalista che nell’immediato dopo guerra si batteva per occupare le tenute incolte della mafia e distribuirle alle famiglie dei contadini, si sta avverando. Lui è morto da tempo, sequestrato e ucciso nel maggio 1948 dopo essersi scontrato con il giovane ma già potente Luciano Liggio (il suo corpo non verrà mai ritrovato). Ma è questo il suo lascito: i campi che furono dei boss mafiosi e dove oggi si coltivano cereali, legumi, pomodori, uva e ulivi. Un’impresa che, però, non ha ancora vita facile. I problemi economici sono i più duri: “Le difficoltà di gestione hanno dimezzato i soci”, spiega Francesca Massimino, responsabile amministrativa della Rizzotto. “Chi è rimasto crede veramente in questo progetto e ci mette tutto il tempo, se stesso. I costi per impiantare i vigneti, per esempio, sono altissimi: per i quindici ettari del Nero d’Avola abbiamo avuto quasi 200mila euro di spese, un investimento pesante per noi. Stiamo cercando di risolvere da soli i problemi. E il prossimo anno avremo una cantina per lavorare il nostro vino e ottenere la certificazione biologica”. Francesca ha 36 anni, una bella voce, gentile ma ferma, decisa. “Io sono disabile, viaggio su una carrozzina, come me in paese ce ne sono altri, però sono runica che mostra a tutti di essere davvero autosufficiente. La gente quando mi incontra mi ripete sempre che io ho tutte le fortune. È una cosa che mi fa davvero arrabbiare, e rispondo sempre: “Alla faccia vostra! Perché io mi muovo, sono una persona attiva, piena di interessi, e non sospettosa, chiusa”. Qui più che altrove, l’aggettivo “vitale” amalgama tante qualità: ottimismo, caparbietà, resistenza.
Scoraggiarsi è vietato. Arrabbiarsi è sconsigliato. Come quando hanno organizzato una grande festa per il primo raccolto del grano. Una festa davvero in grande, con tutte le autorità del paese: il prefetto, il questore, il sindaco, e naturalmente molte forze dell’ordine. Ma qualcosa stonava: alla festa non è arrivato nessuno del paese: “La gente non voleva venire. Aveva paura dei carabinieri. Noi contavamo sulla loro partecipazione. Non solo perché ci tenevamo, ma anche per ragioni più semplici e pratiche: non avendo una mietitrebbia speravamo che la portassero i contadini di qui”. I ragazzi hanno provato a insistere, hanno chiamato, invitato. Niente da fare. Così alla fine è toccato ai carabinieri andare a requisire una mietitrebbia per permettere il raccolto durante la festa.
Ma è davvero ancora così difficile lavorare a un progetto sociale che sostiene la legalità? “Dopo quattro anni e mezzo la gente incomincia a non guardarci più con diffidenza, ma in paese l’ignoranza rimane” spiega una ragazza. “Se vai a chiedere dov’è la Cooperativa Placido Rizzotto ancora oggi nessuno lo sa. Ma se chiedi dove lavora Francesca Massimino te lo dicono subito”. Sarà perché il nome ricorda un morto di mafia? “Forse. Sono cinque anni che lavoriamo nel centro del paese, della cooperativa si parla parecchio” dice Francesca. “Partecipiamo a tutte le fiere della zona. La gente viene, chiede, si informa, ma ancora il nome della cooperativa non gli resta in mente, è strano no? Però oggi vengono a bussare alla nostra porta per chiedere lavoro, vengono a chiedere se è vero che noi li mettiamo in regola, e questa è una bella conquista per noi”.
La piccola guerra che si combatte in queste zone è fatta di oblio volontario ma anche di colpi bassi. “Ogni anno succede qualcosa: il primo a Corleone seminavamo il terreno e il giorno dopo ci trovavamo le pecore che pascolavano. Il secondo anno hanno rubato l’unico trattore che avevamo, un cingolato che non può camminare sulla strada e dev’essere portato via con un camion. Il terzo anno, alla fine di una festa - la “48 ore per la legalità” - a cui partecipano ogni anno tutti i Comuni del consorzio, che ora si chiama Sviluppo e legalità (i nomi dei paesi sono quelli noti alle cronache mafiose: Corleone, Monreale, Altofonte, Camporeale, Piana degli Albanesi, Roccamena, San Cipirello, San Giuseppe Jato) - poco prima della commemorazione del giudice Paolo Borsellino hanno incendiato un nostro campo di grano. Per fortuna la Forestale ha visto subito il fumo ed è riuscita a intervenire. L’anno dopo ci hanno riprovato, sempre nello stesso campo ma gli è andata male: invece del grano avevamo seminato i ceci. In quel periodo erano ancora verdi, e così il fuoco non ha attecchito”.
Sgretolare la diffidenza è difficile, lo hanno capito le cinque cooperative siciliane che hanno aderito al progetto Libera Terra e lavorano su ex possedimenti mafiosi: dalla Casa dei Giovani dove producono olio extravergine nei campi che furono di Provenzano alla cooperativa Noè che gestisce gli ex terreni del clan Vitale a Partinico. A Canicattì, un posto che nella memoria collettiva è preso ad esempio per indicare un luogo sperduto e dimenticato da Dio, si trova la cooperativa Lavoro e non solo: “Avevamo appena impiantato i primi vitigni nel terreno” racconta il presidente Calogero Parisi. “Il mattino dopo abbiamo scoperto che qualcuno li aveva sradicati tutti e in mezzo al campo aveva buttato il cadavere d’un cane ammazzato. Ora c’è un’indagine in corso. Magari poi scopriamo che è solo il gesto di un cretino che voleva farsi notare, però mi ha impressionato vedere che la mattina dopo sono venuti tutti a lavorare e abbiamo ricominciato a impiantare altri vitigni. Non era proprio una risposta scontata qui”. Nei terreni di Corleone hanno impiantato anche dei fichi d’India, coltivati con il metodo biologico, quest’anno ci sarà il primo raccolto: “Iniziamo a venderli freschi, poi forse faremo anche un liquore”. Il 22 novembre la cooperativa Rizzotto compie cinque anni di vita. Oltre a coltivare le terre che furono di Totò Riina e Giovanni Brusca, ha da poco ristrutturato e preso in gestione l’agriturismo Portello della Ginestra, nella Piana degli Albanesi, e ha inaugurato un maneggio, che porta il nome di Giuseppe Di Matteo, il bambino di 11 anni, figlio dì un pentito, rapito e barbaramente ucciso nell’acido. Non è poco in un paese che troppo spesso, come diceva Leonardo Sciascia, “non ha memoria né verità”.
(arretrato di Io Donna - Corriere della Sera - del 9 settembre 2006) 


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