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Allegrini 2024

Corriere Della Sera Magazine

Slow Food, le buone idee sono bipartisan... Fa un certo effetto pensare che sia nato tutto da lì, da un menù andato di traverso. Tordi male arrostiti, una ribollita da dimenticare e un vino sfuso gelato ingollati di corsa e senza nemmeno il tempo di assaggiare il dessert perchè alla porta premeva già la carovana del secondo turno. Eppure, a scavare all’indietro è quella la data giusta: ottobre 1982, gita sociale dell’Arci Langhe alla Sagra del Tordo di Montalcino. Roba tra amici, con le tavolate alla Casa del popolo e altri compagni a sgobbare in cucina. Ma ai Langaroli quel pranzo erta rimasto sul gozzo. Alla segreteria di Arci Toscana, giorni dopo, arrivò una lettera: «Nei festival di partito, per una ideale, si è disposti a rovinarsi lo stomaco... Ma a parte questi festival noi pensiamo che sia ora di finirla con i compagni che si improvvisano cuochi e camerieri o per lo meno, se tali sono i loro intendimenti, debbono specializzarsi ,a maggior ragione se chiedono un compenso». Firmato: Carlin Petrini da Bra, Cuneo. L’uomo che avrebbe inventato lo Slow Food. L’Onu del cibo. Basta il nome a evocare un piccolo impero, fondato sul gusto e sui manieri. Ottantatremila sedi in 111 nazioni: 200 presidi alimentari a difendere cibi e tradizioni che stavano sparendo dall’Italia, dal pane Ur-Pearl all’Alto Adige alla Vastedda siciliana: 64 a fare altrettanto nel resto del mondo. E poi i libri, le guide, l’Università di Scienze Gastronomiche appena aperta a Pollenzo, il Salone del Gusto di Torino... Su, fino ai 5 mila contadini di tutto il mondo portali al Lingotto per Terra Madre kermesse di colture e culture che qualcuno, a ragione, ha ribattezzato “L’Onu del cibo”. Un fenomeno globale, insomma. Nato a sinistra, ma trasversalissimo: sotto la chiocciolina si raccolgono politici agli antipodi (Da Gianni Alemanno a Fausto Bertinotti, per intendersi) e mondi ancora più lontani (da Carlo d’Inghilterra all’economista indiana Vanda Shiva, passando per i pastori polacchi, i vignaioli afghani e tanti altri). E se è vero che proprio questa trasversalità attira critiche e qualche crisi di rigetto, a consacrare una volta per tutte Carlin Petrini da Bra è arrivato persino Time, la rivista americana. L’autunno scorso l’ha infilato tra i “nuovi eroi d’Europa”, in una copertina molto politically correct (l’altro modello made in Italy erano le due Simone rapite a Bagdad), ma ricca di argomenti da approfondire. Mettetela come vi pare, quindi, ma questo signore cordiale, occhi ricchi d’ironia, capelli radi barbetta sottile messa lì a ricordare quella più folta che aveva da post-sessantottino (a giorni compie i 56), è uno degli ultimi italiani da esportazione. E pazienza se quando glielo fai notare mentre sorseggia un cappuccino in un hotel londinese tra una cena a Buckingam Palace o un incontro con i soci inglesi del movimento, sorride e glissa. Sono i fatti a parlare. La sua è una rivoluzione vera, come recita il titolo di un bel libro in uscita (Slow Food Revolution, Rizzoli, in libreria dall’8 giugno) curato da Gigi Padovani, collega della Stampa. Dentro c’è un mucchio di lavoro: interviste, documenti, ricerche e d’archivio. Ma non a caso si parte proprio da quella scampagnata andata male e contestata via lettera. Alla risposta piccata dei compagni di Montalcino seguirono dibattiti pubblici, incontri, riflessioni. Fino alla presa di coscienza che nell’86 portò alla nascita di Arcigola, primo nucleo di Slow Food. A guardar bene, però, i temi di fondo del Petrini-pensiero erano già in quelle due righe. Il valore del cibo, anzitutto. Poi la lotta alla fretta, alla sbrigatività carica di malessere a cui ti obbliga un certo modo consapevole di guardare alla tavola (che succeda in una Casa del popolo o in un fast food, cambia poco). Infine, appunto, il piacere del gusto, tout court. «Arcigola nacque in contrapposizione a una sinistra che guardava questi temi con sussiego: noi abbiamo rivendicato da subito il diritto al piacere, materiale e conviviale», spiega Petrini. Edonismo consapevole. «Io parlerei di predisposizione culturale. Ho sempre avuto una grande passione per la Francia, per il modo con cui avevano protetto e sviluppato certe ricchezze: i vini, il terroir... Per me il paragone con le Langhe, dove c’erano gli stessi tesori ma non li sfruttavamo, era immediato. Bastava guardare e riflettere». BAROLO DEMOCRATICO. In quelle Langhe Petrini, radici cattoliche trapiantate a sinistra, ci si è sempre trovato il tempo stesso bene e stretto. Leader per carattere, ottimo organizzatore, è passato da un tavolo all’altro senza sbalzi e tessendo amicizie: la Radio Bra Onde Rosse (fondata nel ’75) all’esordio al Club Tenco di Sanremo (’78, con il Trio di Bra), dalle serate con Guccini e Paolo Conte al seggio in consiglio comunale (PdUp), fino a quella «Libera e Benemerita Associazione Amici del barolo» messa in piedi nell’81 con molta ironia (lo slogan era: «Il barolo è democratico, o quantomeno può diventarlo»), ma altrettanta strategia. Il risultato è una biografia a doppio registro: da provinciale classico e, insieme, sui generis. Ripercorrerla è come rileggere trent’anni di storia nostrana visti da uno che dà l’impressione di averli vissuti e criticati in anticipo. Il post-sessantottino abbracciato già primo del riflusso; l’edonismo consapevole teorizzato prima che gli anni ottanta diventassero rampanti e Milano «da bere»; la necessità di darsi nuovi contenuti e forme di organizzazione dei gusti e ideologie; la critica all’omologazione dei gusti e allo strapotere delle multinazionali avviata primadei no-global... C’è dentro molta forza visionaria. Materia che di questi tempi scarseggia dalle nostre parti. «Senza capacità di visione non ce la fai a costruire qualcosa. Soprattutto se arrivi da bra. La provincia degli anni Settanta non era come oggi: non c’era mica internet a tenerti in contatto con il mondo». (segue)


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