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Corriere Della Sera / Magazine

Attenti, la piccola grande italia può sfuggirci di mano. Gli alfieri del nuovo made in Italy si ritrovano nei borghi dell’Umbria. E Giuseppe De Rita, che aveva preso proprio quei luoghi come modello per il Paese, ne approfitta per lanciare un monito. Che ci riguarda tutti … “Troppo entusiasmo e troppo interesse mediatico. Non è un buon segno. Può indicare una bolla. E io non vorrei che finisse così. Sa, sono affezionato alla mia creatura…” Tono e faccia sono allegri, quasi divertiti. Ma si capisce che quando Giuseppe De Rita, segretario generale del Censis, parla della “sua creatura”, non scherza mica. Bevagna, in fondo, l’ha scovata lui, con quel rapporto 2001 che indicava il borgo umbro (e Ceva, Avigliano, Sermoneta…) come esempio di una piccola grande Italia dove si vive bene e si lavora meglio. In Umbria calarono stampa e tv, ad analizzare il campione di quel Belpaese “borghigiano e policentrico” capace di attingere forza e futuro dalla propria storia, di riscoprire che anche nell’epoca incerta della globalizzazione le radici sono importanti, forse più di prima, perché “il dove sei rivela chi sei e cosa puoi fare”. A quel rapporto ne seguirono altri, in cui De Rita scavò nella cosiddetta bevagnizzazione del Paese. E il borgo divenne un’icona della neoprovincia postindustriale.
Da simbolo a Symbola
Ora capita che proprio a Bevagna si ritrovi Symbola, fondazione per le qualità italiane che lega mondi diversi: banchieri e associazioni, imprenditori e ambientalisti. Due giorni di convegno con tema “Il futuro dell’Italia e la sfida della soft economy”, nome con cui Ermete Realacci, presidente della fondazione, ha ribattezzato quel nuovo Made in Italy che proprio dalle radici locali pesca la forza per andare all’assalto del mondo sotto forma di hi-tech e Docg, turismo culturale e multinazionali tascabili. Si apre domani, si chiude sabato a Montefalco, terra di Sagrantino e degli affreschi di Benozzo Bozzoli. Piccola, ma grandissima Italia, insomma. E proprio nei borghi celebrati da De Rita, che naturalmente è tra gli invitati. Ti aspetteresti di trovarlo felice e contento. E invece? “Vedo un eccesso di affollamento. La bevagnizzazione è un tema importante: non mi piacerebbe vederlo sepolto dal terziario più bieco”. Tradotto: chiacchiere e carte. Rischio segnalato sempre con il sorriso sulle labbra. Ma segnalato.
“Se una tematica c’è, ed è autocoscienze, deve crescere di suo. Fino al punto di chiedere una politica ad hoc. Come è successo quando abbiamo tirato fuori il tema del sommerso, primissimi anni Settanta. O dei distretti industriali, un decennio dopo. Temi scoperti da noi. Ci sono voluti anni, ma si sono trasformati in procedimenti concreti: la rivalutazione del Pil, il club dei distretti, eccetera”. E Symbola non è un tentativo di questo tipo? In fondo si parla di reti, di sistema Paese, di territorio. Si promuove la legge di tutela dei piccoli comuni. Politica, insomma. “Non so. Vedremo. A me pare che il fenomeno bisognerebbe lasciarlo decantare ancora un po’. Magari mi sbaglio”.
Proviamo a inquadrarlo meglio, allora, il fenomeno. Come è cambiata la piccola grande Italia in questi anni? “Nel 2001 eravamo freschi di 11 settembre, E Bevagna nel rapporto spuntò come esempio di quella che chiamavo “una quotidianità controfobica”. Un luogo lontano dalle città sotto tiro, in cui ritrovare serenità contro l’aggressione. Negli anni successivi siamo andati più a fondo. E abbiamo scoperto un’Italia che non ha saputo diventare borghese, ma è diventata borghigiana”. Caratteristiche? “Innanzi tutto non è una realtà che riguarda tutto il Belpaese. Il borgo è una scoperta dell’Italia centrale - umbra, toscana, marchigiana - che un po’ alla volta si è sparsa nelle Langhe, nel Bellunese, nelle campagne del Ferrarese e del Ravennate, verso Sud. Una serie di sottosistemi forti, che diventano ancora più forti. Diminuisce l’importanza delle città. Aumenta la capacità di fare intreccio intersettoriale: fra turismo e agricoltura, per esempio. Ora, questa dinamica porta a una domanda: ma l’Italia può costruire una logica sistemica ulteriore rispetto a quella precedente,cioè a quella dei distretti industriali e della piccola impresa? O è destinata a dare solidità solo a quelle aree? Insomma, quanto tutta questa roba fa sistema e non solo alcuni sottosistemi territoriali?
Made in italy uno e trino
Bella questione. E lei che risponde? “Sono più problematico di altri. Perché all’interno di quegli stessi sottosistemi vedo rischi di corrosione”. Quali? “Vada a vedersi i valori immobiliari dei borghi: stanno diventando improponibili. Arrivano i russi a comprare a miliardi case che fino a poco tempo fa valevano milioni. Siamo vicini alla bolla. Altro problema: l’integrazione. Se va nelle Marche, trova borghi bellissimi. Per metà ristrutturati dagli olandesi, per metà abitati da extracomunitari che vanno a lavorare la terra. Con meccanismi di integrazione che ancora non riusciamo a comprendere. Così come va detto che molte di queste aree vivono di stipendi pubblici e di pensioni. Il mio amico che ha sessant’anni se ne va da Roma e porta la sua pensione a Campello sul Clitunno trova più qualità della vita, ma non porta lì una vitalità”. Altro che problematico, professore… “Semplicemente, dico agli entusiasti: attenzione, il meccanismo economico di tutta questa vicenda non l’abbiamo ancora capito. Non sappiamo do ve andrà a parare”. Ma il fatto che si creino reti che mettono in contatto questi ambiti diversi e li fanno dialogare, come succederà a Bevagna, non aiuta a chiarirsi le idee? “La rete è un’ottima cosa, ma non basta. Il vero problema è la consistenza del processo, non quante persone ci si buttano sopra. E per capire questa consistenza, o si fanno inchieste in profondità su almeno dieci di queste realtà, e poi ci ritrova a discuterne tra chi le ha fatte e studiate, o si rischia di restare in superficie”. Meglio fare un passo indietro allora. Fino al denominatore che lega l’idea dell’Italia borghigiana alla soft economy: la qualità. A Bevagna e C. lei attribuisce una caratteristica: l’alta qualità della vita. Proviamo a definirla? “In Italia ha una connotazione precisa: la qualità della convivenza. L’ambiente, il paesaggio, i prodotti tipici sono tute cose importanti. Ma il nucleo fondante è il viver bene insieme, il conoscersi, il rispettarsi”. E questa essenza comune centra o non centra con al qualità del Made in Italy? “Oggi di made in Itali ce ne sono tre. C’è quello griffato, che non solo può, ma deve essere fatto qui. Deve avere il sapore dell’Italia. Poi c’è l’italian style: l’imprenditore a Prato se ne va in Cina a vedere con marchio italiano jeans fatti in Corea. E’ qualcosa di diverso, un mix di industria, logistica e pubblicità. Infine, c’è il lavoro su misura: torni e macchine fabbricate ad hoc, committente per committente. E’ la cultura artigiana che diventa industria. Quanto centra il borgo con tutto questo? Con il primo modello qualcosa, Con il secondo, zero. Con il terzo, poco e di straforo. Ma se il futuro è la globalizzazione, o l’Italia borghi entra in queste sfide, o alla lunga diventa solo un posto buono per far svernare i pensionati”.
Vino, castagne e sottosistemi
Processo che va governato, però. Più la ricchezza del paese si fa policentrica, più ci vuole un coordinamento agile ma forte. Penso al turismo, per esempio, dove ognuno va per conto suo. Non ha ragione Francesco Rutelli quando cerca di accentrare deleghe su questi temi? Come si fa, altrimenti, a tirare fuori dal tesoro dei borghi qualcosa di buono per tutto il Paese? “Il sistema Italia in quanto tale non può fondarsi sui borghi. Possono nascere quelle che io chiamo condensazioni sottosistemiche, ma non saranno mai così forti da connotare il sistema. I distretti lo erano. Hanno tenuto insieme il Paese. Ma i produttori del vino o le città delle castagne, per dire, non ce la fanno. Non potranno mai sostituire i pratesi di una volta”. E allora come si aiuta la Piccola grande Italia a crescere? “Creando coalizioni interregionali, sottosistema per sottosistema. Il Lazio con l’Umbria, l’Umbria con le Marche … Bisognerebbe mettere insieme i presidenti delle regioni. Riflettere. E farne un problema politico, trovare il modo di aiutarli a condensare. A emergere dal basso”. A cominciare da Bevagna.

Appuntamento nella terra del Sagrantino
Appuntamento nella terra del Sagrantino
“Attenzione: l’idea della soft economy non è quella del piccolo è bello: è scegliere come terreno di competizione la qualità italiana, quell’intreccio di storia, natura e cultura che dà una cifra alla nostra produzione, in tutti i campi”. Parola di Ermete Realacci, deputato della Margherita e fondatore e presidente di Symbola, la fondazione per le qualità italiane che per il suo seminario annuale stavolta ha scelto Bevagna e Montefalco (21-22 luglio, www.symbola.net ).
Con un parterre che, tra ospiti e padroni di casa (tra i soci di spicco c’è quel Marco Caprai che proprio a Montefalco produce vini da brivido), vedrà Alessandro Profumo e Walter Veltroni, Franco Pasquali (Coldiretti) e Raffaello Vignali (Cdo), Paolo Terribile (presidente dei Distretti) e tanti altri, fino a Francesco Rutelli, vice-premier e ministro dei Beni culturali.
Tema: l’Italia del futuro. “Che, per capirsi, non ha come modello solo Bevagna, ma qualcosa di più complesso. E’ un Paese che compete per non perdere le sue radici. Settore per settore: dalla tecnologia all’industria, dal turismo all’agricoltura”. Sempre di qualità.
Autore: Davide Perillo

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