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Corriere Della Sera / Magazine

Brolio: tutti in coda dal barone vignaiolo ... Qui, dove a metà ‘800 Bettino mise a punto la formula del Chianti, oggi il bis-bisnipote attira 30 mila “turisti della bottiglia”. Dopo avere rilanciato il marchio e scalato le classifiche mondiali... “Ma com’è fatto il barone?”. Agli impiegati della fattoria di Brolio capita anche di sentirsi fare questa domanda, nel bel mezzo di una degustazione dedicata a un Chianti di pregiatissima annata. Siamo al confine tra Firenze e Siena. Nelle tenute attorno al castello dei Ricasoli. Una delle parti più aspre e isolate del Chianti, quella dove il vino omonimo è nato con Bettino (il Ricasoli “barone di ferro”) che nel 1874 definì il disciplinare - ovvero la formula di composizione fra diversi tipi di uve - del più famoso vino italiano. Sangiovese per la grandissima parte (“la dose principale del suo profumo e una certa vigoria di sensazione”), Canaiuolo (“l’amabilità che tempera la durezza del primo”) e Malvasia (“accresce il sapore e lo rende più leggero”, comunque non essenziale per i vini destinati all’invecchiamento). Gli impiegati che devono spiegare com’è fatto un barone (o rispondere ad altri strampalati interrogativi riguardo ai fantasmi di antenati o alle segrete sotterranee che il castello deve indubbiamente avere) sono quelli dell’azienda agricola oggi diretta da Francesco - il barone, appunto - 32° erede della dinastia e bis-bisnipote di quel Bettino che fu importante anche nella storia politica nazionale, rivale di Cavour e, dopo la morte nel 1861, suo successore alla guida del governo nell’Italia appena unita. I curiosi sono alcuni - soprattutto gli orientali - fra i partecipanti ai tour tematici che l’azienda organizza rivolgendosi agli oltre 30.000 turisti del vino che ogni anno arrivano qui da tutto il mondo.
Ricasoli è convinto che sia un aspetto sempre più importante nell’industria del vino: “Dobbiamo premiare chi è arrivato fin qua”. Al di là del fascino un po’ folcloristico esercitato dai casati millenari. questo significa approntare corsi enologici approfonditi, visite guidate a terreni e cantine e sedute di degustazione da provetti sommelier. In California, da Mondavi, l’azienda che produce il celeberrimo Opus One, i tour tematici consistono in mezz’oretta di assaggi, calice in mano su una terrazza. Bella veduta, certo. Ma qui è qualcosa di più. Si tratta di ricostruire accuratamente spaccati di storia vera e propria: lo sviluppo di queste terre, le vicende dell’agricoltura con la mezzadria e il suo tramonto, le crisi e la ripresa degli ultimi anni. Oppure, più indietro nel tempo. La Toscana dei campanili, con le infinite guerre tra Firenze e Siena dove i Ricasoli - le tracce risalgono al 1141 - erano l’ultimo baluardo fiorentino: “Quando Brolio vuol broliare tutta Siena fa tremare”, è un vecchio adagio che Francesco rammenta e che nella regione conosce altre mille varianti tutte risalenti ai conflitti fra comuni o signorie.
A proposito di crisi, la Ricasoli, alla fine degli anni Sessanta, non ha avuto una storia facile e lineare. Dalla famiglia la proprietà passò agli anglo-americani della Seagram, poi transitò per altri gruppi e tornò alle origini solo nel 1993, col riacquisto da parte dell’attuale presidente. Non senza un duro braccio di ferro col gruppo Moccia, quello del Vov.
“Le proprietà straniere ci hanno lasciato un’eredità abbastanza negativa, se si esclude l’informatizzazione dell’azienda”, disse all’epoca Francesco riferendosi soprattutto all’immagine dell’etichetta. “polverosa” rispetto ad altri Chianti che stavano godendo un rampante successo. Ormai la fase difficile è stata abbondantemente superata. L’azienda è tomaia a proprietà familiare, spiega Francesco: “Tranne un socio straniero che ci ha seguito dall’inizio ed è assolutamente minoritario”.
Brolio, nel 2006, ha fatturato 12,5 milioni di euro e dà lavoro a 120 persone. L’accoglienza per i visitatori è spettacolare in un vecchio magazzino recuperato e trasformato con interni che alternano assoluta modernità e recupero filologico di impianti e arredamenti storici: “Questo è un progetto pieno, focalizzato sul vino e sul turismo a questo dedicato. Senza divagazioni. Anche per questo abbiamo chiuso l’agriturismo con le camere in affitto. Non possiamo star dietro a troppe cose”. Il barone si può oggi permettere anche un sussulto d’orgoglio: “A volte non ci si ricorda che noi siamo la più grande azienda del Chianti come terreni coltivati a vite, con 248 ettari. E qui stiamo bene. Non siamo ossessionati dalle acquisizioni in altre zone vinicole. Del resto oggi nessuno più ci chiede perché non si è mai comprato vigneti in Maremma”.
Il riferimento sottinteso va alla gran voga conosciuta in tempi recenti dalle bottiglie prodotte di quella zona - comprese nel gruppo dei cosiddetti Supertuscan - che ha portato alle stelle il costo dei terreni con avventure finanziarie che per qualche viticoltore, pure di gran nome, si stanno rivelando un po’ a rischio. Un Supertuscan, il Casalferro, lo fa anche Ricasoli ma non lo tiene in minor conto del Chianti Classico Castello di Brolio.
Entrambi mietono riconoscimenti (“tre bicchieri” nell’ultima classifica del Gambero Rosso e rispettivamente 91 e 92/100 nell’ambita graduatoria di Wine Spectator) ma le vittorie del secondo lo soddisfano di più.

Il Chianti: se ne beve più a New York... Il territorio del Chianti Classico si estende su 70.000 ettari dove operano 612 aziende consociate nell’omonimo Consorzio (di cui 345 imbottigliatrici.). Il loro fatturato, nel 2006, ha raggiunto I 535 milioni di euro, con un totale dl investimenti annui (per rinnovo impianti, cantine e attrezzature) attorno agli 80 milioni di euro. Gli ettari dedicati al vigneti che producono Chianti Classico sono 7.096 per un totale nel 2006 dl 270.000 ettolitri con un aumento del 5% rispetto all’anno precedente. Per quanto riguarda le vendite, gli Stati Uniti col 30% ormai hanno superato l’Italia (27%). Seguono Germania (10%) e Regno Unito (9%). La Francia resta ostica, finisce lì soltanto 1% del Chianti prodotto.

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