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Corriere Della Sera

Il vino entra nei fondi d’investimento. Dopo i timidi esperimenti sui «futures», si studiano nuovi strumenti finanziari. Con un obbiettivo: lo sbarco in Borsa. Produttori e istituti di credito pensano a portafogli specializzati in grandi cru invece che in titoli ...

Il più famoso è il Redgold Wine Investment, promosso da Christian Roger, finanziere francese, che ai suoi sottoscrittori è arrivato a offrire rendimenti fino al 30%. Ma sono numerosi, specialmente in Gran Bretagna e negli Usa, gli esempi di fondi chiusi che investono in vini pregiati. Adesso questi strumenti stanno facendo capolino anche in Italia, Paese che, come la Francia, dispone di prodotti di altissima qualità. Pur non mancando una normativa in materia (è la stessa che regola i fondi che operano in tutti gli altri settori), manca però il cosiddetto mercato secondario, un meccanismo cioè che permetta a chi sottoscrive le quote di poterle rivendere con facilità. Le iniziative allo studio, tuttavia, non mancano. Ci starebbe pensando, per esempio, Guido Folonari, dell’omonima famiglia di produttori vinicoli. E un dossier è allo studio di Emprimer, società che intende promuovere lo sbarco del vino in Borsa «attraverso tutte le forme possibili», come spiega il suo presidente Claudio Ciastellardi. Del problema si parlerà a Torino, in un convegno organizzato nell’ambito del Salone del Vino (in programma al Lingotto dal 15 al 18 novembre). Ma come dovrebbe configurarsi un fondo «vinicolo»? Si tratterebbe di una grande cassa che raccoglie i soldi dei risparmiatori e li investe in partite di vino pregiato. Esattamente ciò che i fondi comuni d’investimento mobiliari fanno nei confronti di azioni e obbligazioni. La differenza è soltanto nel cosiddetto «portafoglio»: anziché titoli, vino. Ma non solo: dovrebbe trattarsi di un fondo chiuso (nel quale le quote vengono collocate presso un gruppo definito di investitori) che, oltre al vino, potrebbe acquistare intere aziende vinicole e certificati legati a vini non ancora prodotti, i cosiddetti futures . «In teoria - spiega Raffaele Jerusalmi, responsabile della Divisione Derivati di Borsa Italiana - quotare un prodotto finanziario di questo tipo è possibile. Così come lo è per i futures . Il problema è garantire la necessaria liquidità al mercato». Quella che è mancata nel caso dei precedenti tentativi di lanciare i «derivati» legati al vino, come i warrant , certificati rappresentativi di partite di Barolo o Brunello; o gli stessi futures , che nella sostanza ne ricalcano il meccanismo.
«Portare il vino in Borsa è il nostro obiettivo primario - precisa Ciastellardi -. Si tratta soltanto di individuare le strade più idonee». Emprimer è aperta a tutte le possibilità. I mezzi non le mancano: nel capitale sono presenti grandi banche come IntesaBci e Monte Paschi; istituti di credito regionali come Banca Commercio & Industria e Popolare di Vicenza (guidata da Gianni Zonin); poi Pellegrino Capaldo (ex presidente della Banca di Roma) e soprattutto Meliorbanca, la banca d’affari guidata da Pier Domenico Gallo nota per l’attenzione che riserva a ogni tipo di innovazione finanziaria.
Insomma, il «fidanzamento» tra vino e finanza procede a gonfie vele ... «Il vino - scrive Paola Verduci in un report del Servizio Studi della Bnl - si presta particolarmente bene per il mercato dei futures , essendo lo stoccaggio (invecchiamento) elemento essenziale della qualità». Peccato che, come ricorda la stessa Bnl, le emissioni effettuate finora in Italia si siano rivelate «essenzialmente operazioni di marketing». Adesso però sembrano aprirsi nuovi spiragli. Il vino da investimento o, più semplicemente, il «vino da Borsa» potrebbe diventare presto una realtà anche in Italia.

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