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Corriere Della Sera

«Le aziende vinicole? Malate di nanismo»: al Salone di Torino gli operatori denunciano l’eccessivo frazionamento delle cantine italiane. E gli investimenti frenano. Ma alla lunga il settore rende più della Borsa ... Il vino è una delle grandi risorse del made in Italy, al pari della moda, ma non esiste una sola azienda italiana capace di competere, quanto a dimensioni, con i colossi internazionali del settore. Anche se a livello di sistema siamo tra i primi produttori al mondo, questo primato si basa su un equilibrio economico insufficiente se non addirittura precario, a causa delle scarse capacità del settore di attrarre nuovi investimenti.
«Il frazionamento delle imprese - dice Gianni Zonin, vignaiolo e al tempo stesso banchiere (presiede la Banca popolare vicentina), - è la palla al piede della viticoltura italiana». Aggiunge Augusto Bocchini, presidente di Confagricoltura: «Siamo prigionieri di un quadro normativo che penalizza la crescita delle aziende». Risultato? Su un campione di 50 mila aziende vinicole italiane (il dato è emerso nel corso di un convegno al Salone del Vino in corso a Torino, che si concluderà domani) le prime 25 controllano soltanto il 17% della produzione, mentre negli Usa lo stesso numero di imprese ha in mano il 90% del mercato.
Non solo: in paesi a tradizione vinicola assai più recente della nostra, come l'Australia, le dieci cantine più importanti sono tutte quotate in Borsa. In Italia nemmeno una, almeno direttamente. Soltanto qualche presenza indiretta: la Sella & Mosca in quanto controllata dalla Campari, la Zignago, le Tenute di Fontanafredda che sono in portafoglio al Monte dei Paschi di Siena, alcune «griffe» vinicole di proprietà delle grandi compagnie di assicurazione come Generali e Ras.
Eppure, come ha dimostrato uno studio della Deloitte & Touche, confrontando nell'arco di alcuni decenni l'andamento delle aziende del comparto con gli indici di Piazza Affari, si scopre che il vino vince in termini di rendimento.
Insomma, le potenzialità ci sono. Ma i grandi capitali non arrivano. E tutti i tentativi fatti in passato per introdurre strumenti di finanza innovativa nel mondo dell'industria vinicola hanno avuto vita breve (le emissioni di warrant legati al Barolo e al Brunello, che pure hanno avuto un certo successo, sono rimasti casi isolati).
«Da parte mia - sostiene Renato Preti, amministratore delegato del fondo d'investimento chiuso Opera (da lui promosso insieme con la Bulgari: gestisce una raccolta di 525 milioni di euro), - c'è grande disponibilità a investire in aziende vinicole di un certo tipo. Purtroppo i tentativi fin qui fatti non sono andati a buon fine».
Il fatto è che sono pochissime le società con caratteristiche tali da poter essere acquistate. Gira e rigira, dunque, si ritorna sempre allo stesso problema: quello delle dimensioni delle aziende. La soluzione? Favorire un forte processo di concentrazione. Così come è avvenuto nei decenni passati in molti comparti industriali.

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