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Corriere Della Sera

Alza il gomito, filosofo se vuoi capire la vita. Da Socrate a oggi: Donà scrive la storia del pensiero attraverso il vino. L' ebbrezza come via alla conoscenza o alla follia ... In principio era il vino. Non che il vino fosse l'origine di tutte le cose, come avrebbero potuto affermare i primi pensatori greci, ma senza questo nettare il mondo apparirebbe diverso e più triste. È una battuta? Non proprio. Il succo della vite che i greci chiamavano oînos e i latini vinum ebbe come dio Bacco, o Dioniso che dir si voglia, signore del delirio mistico, dei sensi, una divinità che con il suo atteggiamento spiegava la vita stessa. Il cristianesimo avrebbe potuto liberarsi di questa bevanda, invece la rese ancor più importante. Gesù compie il primo dei suoi miracoli alle nozze di Cana trasformando l'acqua di sei giare di pietra in un vino eccellente, tanto che il maestro di tavola ne è colpito e si complimenta con lo sposo (Giovanni 2, 6-11). E cosa sarebbe la religione cristiana senza il vino dell'Ultima Cena che addirittura diventa il sangue di Cristo? Chi volesse cercare conferme nell'Antico Testamento, ne troverebbe a iosa. Noè, appena uscito dall'arca dopo il diluvio, «cominciò a piantare una vigna». E, aggiunge il testo sacro, «avendo bevuto il vino, si ubriacò e giacque scoperto» (Genesi 9,21). E che cosa si deve rispondere all'agiografo che ha scritto il libro di Qoélet, uno dei più preziosi della Bibbia, quando invita a mangiare, a bere e a godere per rendere onore alla vita? «Bevi il tuo vino con cuore lieto» (Qoélet 9,7) è l'ordine: uno dei pochi rimedi per strapparsi dalla carne il dolore. Ma tutti questi sono solo esempi. La storia del vino e quella dell'uomo coincidono in molti punti e le prime civiltà ci hanno lasciato sempre qualche documento in favore di questa bevanda. Il greco Erodoto nel secondo libro delle Storie racconta le feste in Egitto vissute all'insegna dell'ebbrezza, dove il vino scorreva a fiumi. Così si onorava il dio Osiris. Ora, è sin troppo facile trovare una giustificazione storica e religiosa al vino. Quelle esistenziali sono ancora più semplici da formulare. Due anni fa Pietro Gibellini ha presentato nel saggio Calamaio di Dioniso (edito da Garzanti) le molte pagine della letteratura italiana moderna scritte, appunto, con l'aiuto del vino. Ma sino ad oggi nessuno aveva pensato di cercarne gli influssi in campo filosofico. C'è riuscito Massimo Donà, uno studioso di tutto rispetto, noto per le sue ricerche (alcune firmate con Cacciari), l'ultima delle quali è dedicata al Parmenide di Platone (ha visto la luce quest'anno da Città Nuova). Sta per uscire - direttamente nei «Tascabili Bompiani», sarà in libreria il 10 settembre, costerà 8 euro - la sua Filosofia del vino con una prefazione di Giulio Giorello. Il quale, tra il serio e il faceto, ricorda una battuta che rimanda - anzi è la versione alcolica - a un celebre paradosso logico con cui il filosofo greco Zenone di Elea fece grullare non poche teste d' uovo: «Sei un astemio convinto? dice Joe». «Tra un bicchierino e l'altro non piglio nulla, feci io». Battute a parte, Donà ripercorre la storia della filosofia occidentale mettendo in evidenza il ruolo che il prezioso liquido ha avuto con i singoli pensatori. Se escludiamo il primo di essi, Talete di Mileto, che aveva fissato nell'acqua l'origine di tutte le cose, e quindi non ha lasciato tracce del suo amore per il liquido che la surclassa, gli altri più o meno sono coinvolti. Da Socrate ad Heidegger, da Platone a Tommaso d' Aquino, da Cartesio a Hegel, da Nietzsche a Wittgenstein. Il vino li ha fatti divertire. E noi ci divertiremo per qualche riga con loro. Furono quasi certamente i misteriosi Orfici, oltre due millenni e mezzo fa, a intuire che il succo della vite è componente di una pratica ascetica di anelito alla pura conoscenza, una via a volte più sicura di quelle indicate dalla ragione. Socrate era informato della cosa e, anche se il suo allievo Platone ci ricorda nel Simposio che «nessun uomo lo ha mai visto ubriaco», con il vino dovette avere un rapporto eccellente. Nel ricordato dialogo platonico, dove si parla della contemplazione del bello assoluto e soprattutto dell' amore, irrompe Alcibiade «molto ubriaco, che gridava forte». Ci si rende conto in poche battute che il generoso liquido non produce necessariamente quell' euforia che manifesta la perdita di sé, anzi il particolare stato di ebbrezza sembra rendere possibile l'identificazione dell'oggetto ultimo della filosofia. Anche Heidegger ricorderà in pieno '900 che la verità ama nascondersi: ad Atene quattro secoli prima di Cristo si cominciò a sospettare il fatto, e la bevanda cara a Dioniso rappresentò la metafora di quell'ambiguità che esprime il senso del vero. O, per dirla con Socrate e Platone, il filosofo riesce ad apparire in un modo ed essere in un altro: come Alcibiade, immagine di ogni uomo che cerca. Epicuro, considerato il maestro di ogni piacere, fu piuttosto un asceta, tanto che alle sue opere attinse il neoplatonico Porfirio per scrivere un trattato sull' astinenza. In compagnia di pochi amici, è descritto con «una ciotola di vino di nessun pregio, anche se di solito beveva sempre acqua». Lasciamolo dunque perdere; chi desiderasse essere epicureo nel senso che il termine ha acquisito si rivolga alle rivisitazioni romane, a Orazio per esempio, che nelle sue Epistole si autodefinisce «un porco del gregge di Epicuro». Condizione irraggiungibile senza l'ausilio del vino. Con altro spirito affronterà la questione qualche secolo dopo Tommaso d' Aquino, a cui la bevanda piaceva, così come gradiva - nei termini liturgici dovuti - le gioie della mensa. Tuttavia, proprio perché il vino era componente dei sacramenti, nella Summa contra gentiles il sommo dottore tratta di «quella materia estranea» capace di corrompere la specie. Il vino sia genuino e non alterato da sostanze perché dovrà, appunto, trasformarsi nel sangue di Cristo. Insomma, con lui inizia la prima campagna contro la mistificazione degli alimenti. Anche René Descartes, il nostro Cartesio, che Vico traduceva «Renato delle Carte», si impelagò in una questione simile: prova ne è una lettera che inviò nel 1645 a padre Mesland, missionario in Martinica. Ma per il filosofo francese il vino da bere e quello del sacramento dell'altare sono soltanto un pretesto per avviare una frigida analisi logico-scientifica. Meglio Kant che, pur condannando gli ubriachi, preferì curarsi con il rum anziché con le gocce prescritte dal medico e alla sua tavola non mancava mai una buona bottiglia. Hegel, il re dei filosofi tedeschi romantici, nel Diario di viaggio sulle Alpi bernesi (tradotto in Italia dall' editore Ibis) ammette di averne gustato generose dosi (e quando è acidulo se ne lamenta). Kierkegaard - siamo nel 1845 - ci ha lasciato un' opera dal titolo esplicito: In vino veritas, sorta di parodia del Simposio di Platone, dove il vino è una difesa della verità e la verità una difesa del vino. Nietzsche scrive invece il più profondo elogio dell'ebbrezza che la filosofia ricordi. Nella Nascita della tragedia il seguace di Dioniso si spinge sino ad accettare tutte le «bevande narcotiche». E questo anche se Zarathustra beveva acqua. Heidegger dedicò una conferenza nel 1950 alla brocca, quindi non soltanto al contenuto ma anche al contenente. Il vino diventa metafora del mondo. E Wittgenstein, quasi astemio, rimane colpito dal miracolo di Cana, in cui il vino è simbolo dell'amore di Cristo per gli uomini (le pagine si leggono nei suoi Diari, tradotti da Quodlibet di Macerata). La storia continua e ci si può divertire all'infinito. Ma la lezione ci sembra seria: senza il vino anche la filosofia perderebbe sapore. Diventerebbe solo una materia accademicamente infiocchettata, mortalmente noiosa. Saper gustare un bicchiere significa anche pensare. Platone ci ha avvisato di questo particolare da quasi due millenni e mezzo.

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