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Corriere Della Sera

Vino italiano per sushi e wan ton. Di moda in Asia i nuovi abbinamenti. E alle nostre etichette si apre un mercato in espansione ... Al posto del tè la cucina orientale comincia a scegliere i cru del BelpaeseBasta con il tè al gelsomino o la birra: al ristorante cinese o a quello giapponese, ordinate vino. Pollo e bambù o wan ton con lo Chardonnay. Sushi con il Nero d’Avola. I puristi della scienza degli abbinamenti storceranno il naso, ma l'ultima chance per l'export dei grandi vini italiani viene dal matrimonio fra la tradizione enologica del Belpaese e la cucina orientale. Lo sostengono gli enogastronomi di Bangkok, Shanghai o Pechino e se ne è parlato poche settimane fa a Singapore, dove un gruppo di produttori italiani ha partecipato a Wine for Asia , fiera strategica per le avanguardie dell’export enoico in Oriente. «Con i vostri cru si possono fare abbinamenti straordinari - dice Michael Lim, gran maestro della stampa di settore in Asia col suo seguitissimo The Travelling Gourmet -, dovete sostenerli per far conoscere la varietà dei mille vitigni italiani, la ricchezza di produzioni particolari come Sussumaniello, Primitivo o certi Aglianico». Concorda Peter Knipp, fondatore e leader del gruppo che pubblica New Asia Cuisine & Wine Scene , sorta di «Gambero Rosso» orientale, e gestisce una tivù per gourmet e enoappassionati: «Trovo che soprattutto alcuni rossi italiani siano perfetti con piatti della cucina cinese e malese». Il rendang daging lembu , spezzatino malese a base di manzo cucinato in latte di cocco, foglie di lime e peperoncini, è ideale, suggerisce Lim, «col Rubesco Riserva 1995 di Lungarotti». Tuttavia, si deve tener conto «dei gusti locali diversi - avverte Edwin Soon, primo ad educare i consumatori asiatici ai vini italiani attraverso il suo sito internet -. A Singapore, ad esempio, il Chianti Classico è considerato fra i rossi un vino un po' leggero». Gourmet, sommelier e importatori presenti a Wine for Asia - dove si faceva la fila per degustare un Nero d'Avola di Baglio Hopps, un Chianti Classico di Vignamaggio o un Brunello di Casanuova delle Cerbaie - hanno cercato di dare impulso alla nuova moda. Proprio Singapore, la città più anticonvenzionale del sud est asiatico, è il termometro dell’export dei vini in Oriente. Vi arrivano da Europa, America, Australia oltre 11 milioni di bottiglie l’anno per un valore di 120 milioni di euro (più 160% rispetto ai primi anni '90). I consumi pro capite di vino sono saliti in un decennio da 100 a 180 litri. Di vini stranieri. In wine club e alberghi non passa giorno senza che vengano organizzate presentazioni di cru, degustazioni, seminari. Uno specchio di quanto accade in tante metropoli di altri Paesi asiatici. Le ricche comunità di ex emigranti cinesi scelgono il vino come status symbol e hanno grande capacità di spesa. Vanno allentandosi anche i vincoli religiosi e morali - primo l'islamismo - che dall'Indonesia alla Malesia ne ostacolavano i consumi. Perfino a Giacarta, nonostante i dazi (475%) il vino è fra i beni di lusso più richiesti. Ciò nonostante l’Oriente resta un mercato difficile, dove l'Italia controlla appena il 3,8% della torta (nel '96 era all'1,7). «Difficile, ma di enormi prospettive - assicura Valentino Sciotti, contitolare di Farnese, 12 milioni di bottiglie l’anno esportate -. Dal '90 abbiamo raddoppiato ogni anno le spedizioni in Asia, e adesso siamo a circa 800 mila bottiglie. Qui c'è il futuro del nostro export, ma siamo ancora in pochi a crederci».

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