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Corriere Della Sera

Il vino italiano fuori dalla tavola dei Grandi ... Le scelte del critico del «Financial Times»... Il fondatore e anima del summit alpino del potenti, Klaus Schwab, si domanda da anni perché ci siano pochi italiani al suo World Economic Forum, ogni fine gennaio, a Davos. Siamo in grado di dargli la risposta. E’ il vino, Doktor Schwab, il vino. Che nelle serate tra politici, economisti, grandi manager globali, giornalisti, stremati da giornate di parole, scorre davvero con la vivacità del torrenti svizzeri, una volta arrivata, e passata, l’ora di cena. Ma che tradisce un certo pregiudizio: non anti-italiano a 360 gradi, ma probabilmente fondato sull’idea che barolo e chianti non abbiano un sufficiente contenuto di glamour globale, caratteristica irrinunciabile a questa altitudine.
La degustazione - Per esempio, ieri sera, all’interno del programma ufficiale del Forum, si è tenuta una degustazione di vini sotto l’umile titolo di «Classic Clarets». Avete un bel dire che nella lista classica dei degustati e in quella definita «eclettica» ci fosse magari un Supertuscan, di quelli che vincono le classifiche internazionali. Niente. Jancis Robinson, giustamente presentata come Master of Wine (lo è), ha messo nella lista della tradizione dieci chateau francesi su dieci bottiglie. Un paio di Latour (‘52 e ‘84)3 un. Lafite, un Cheval Blanc, un Giscours ‘59 con l’etichetta danneggiata e via dicendo.
Tra gli eclettici, due «bianchi francesi non comuni”, uno della Languedoc e l’altro un Vin Jaune Puffeney del ‘95. Poi, le “promesse dell’ Est”: due Indiani e un cinese. Quindi due bottiglie della “New Wave” spagnola. Ancora; tre vini del “Nuovo Mondo”, due dal Sudafrica e uno dalla Nuova Zelanda. Infine, due «storicamente ricchi e sottovalutati”, cioè un Madeira (Portogallo) e un francese. La signora Robinson scrive di vino da trent’anni, ne parla in televisione ed è la Wine Correspondent del Financial Times. Un’autorità assoluta. Il fatto che abbia escluso i vini italiani, dunque, vorrà dire qualcosa. Non è che non le piacciano. Ha evidentemente ritenuto che non avessero una storia da raccontare, a differenza di quella consolidata della Francia o quella emergente del Sudafrica e della Nuova Zelanda. Fatto sta che, ora, il dottor Schwab ha cibo e vino per riflettere sulle ragioni della scarsa affluenza italiana a Davos.
Storie di vino - Anche i produttori di vino italiani hanno però, forse, qualcosa su cui riflettere. In un mondo di specchi, il vino non si afferma solo perché è buono o ottimo o eccezionale. Va accompagnato con una storia, con qualcosa che crei l’esperienza anche mentale. Può non piacere ma quello che racconta il piccolo caso di ieri sera è come ragiona, sente e sceglie la «classe globale», I Davos Men se si vuole, coloro che nei ristoranti e nelle chiacchiere da club fanno tendenza. Se al «World Economic Forum» non vanno imprenditori e politici, dunque, potrebbero farsi vedere almeno i produttori di vino, magari per raccontare la sfida italiana alla Francia. Il fatto è che Davos è, per dirla con le parole di un ex ministro delle Finanze, «il più grande bazar del mondo». Si discute di pace, di imperi, di valute.
Ma, poi, l’eccitazione vera sta nell’uragano di incontri che si tengono ai margini dell’ufficialità. E l’attività di relazioni pubbliche, di propaganda è fortissima. L’anno scorso, per dire, l’India era in ogni anglo, sostenuta dal governo di Delhi e dagli imprenditori del Paese. Quest’anno, all’offensiva ci sono i russi, che di un make-up hanno un certo bisogno. Ma anche Paesi come la Macedonia pubblicizzano il loro vantaggiosissimo sistema fiscale per chi investe. Senza snobismi.

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