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Corriere Della Sera

Quella promessa fatta a mio padre nel gusto dolce e amaro di una vigna ... Ebbene sì, possiedo una piccola vigna, faccio il vino, sono un culture del dolcetto di Dogliani. Voglio però chiarire una cosa: il mio vino non è in commercio, non lo si trova da nessuna parte; serve, appena appena, al consumo familiare e ai regali per gli amici. Non è in vendita, quindi ne posso parlare. E’ una specie di promessa fatta a mio padre, morto sognando di avere una sua vigna.

Finita la guerra, come tanti altri contadini o emancipati dalla zona (una torma di panettieri, macellai, vinai…) aveva abbandonato la Langa più povera in cerca di fortuna: suo padre, bravissimo muratore, era morto da emigrante negli Stati Uniti (registrato come carpenter a Ellis Island): molti altri parenti erano finiti a Monaco, al servizio del Principe; lui si era accontentato di Savona, 40 chilometri di distanza. Però, ogni autunno, tornava a casa sua, comprava l’uva dai vicini, faceva il vino. Che a me pareva straordinario, un vago sapore di fragola; bisognava però berlo subito perché, trasportato, tendeva a intorbidirsi. Mio padre diceva che era colpa dell’aria di mare, il “marino”, ma anni dopo avrei appreso che il mare c’entrava ben poco: era colpa della lavorazione, dei tappi usati due volte (prima da un verso, poi, dall’altro, facendo ben attenzione che il tirabouchon si fermasse a metà strada), delle vecchie botti cui non bastava certo un candelotto di zolfo per purificarle dalle incrostazioni batteriche.

Mio padre è morto senza che potessi regalargli questa soddisfazione, però il regalo lo ha fatto lui a me. Mi ha educato al rispetto dell’amore per la vigna e per il vino. Mi ha preservato dalle mode (com’è demenziale e astratto il lessico degli intenditori), mi ha insegnato, da un uomo di poche parole, che in campagna si lavora molto per sé ma più ancora per i figli se pianti un albero lo pianti per loro.

Quando è capitata l’occasione (l’amicizia con gli Einaudi, i consigli di Carlin Petrini, la grande stima per Orlando Pecchenino, giovane viticultore, capofila della “Dolcetto Renaissance” di Dogliani) una vigna centenaria e malandata è stata estirpata e al suo posto ne è nata una nuova, vigna Benedetta. La vigna la cura Orlando. A ognuno il suo mestiere, che già so fare a stento il mio. Però la vivo con partecipazione e ogni bicchiere che bevo mi sembra di essermelo sudato: d’inverno conto i giorni di pioggia e li benedico, d’estate i temporali mi mettono paura, e poi ci sono le nuove brutte malattie come la flavescenza dorata, la grandinate, persino le scottature. Una cosa sono contento che mio padre non vede il diradamento.

Ad agosto, c’è un’operazione che ai vecchi, i pochi che sono rimasti, mette ancora i brividi. Per migliorare la qualità del vino bisogna tagliare di netto i grappoli meno belli, gettarli a terra che il sole li rinsecchisca. Il diradamento è sempre una sofferenza, un’operazione vissuta come spreco, sperpero, tradimento: una volta, quando a decidere le sorti del vino erano pochi commercianti “langhetti” le uve migliori finivano sul mercato e quelle meno belle restavano al contadino, per farci il vino.

Le vigne erano sfruttate al massimo, la qualità modesta.
Bisogna conoscere la vigna per parlare di vino, non basta frequentare i corsi per sommelier o ricevere gratis bottiglioni di barolo per giornalisti di bocca buona. Il vino è distillato sublime di una serie di operazioni di difficile e complicato bilanciamento. Nel vino tutto è equilibrio: fra vigna e cantina, fra terreno coltivato e bosco, fra concime e inerbimento, fra parete vegetative e grappolo, fra parassiti e predatori, fra trattamenti e rimedi naturali, fra macerazione e affinamento, fra natura e tecnologia, fra terra e cielo. Quando vedo in Langa sorgere i capannoni o crescere come funghi case di inesprimibile bruttezza sto male. Quando scorgo vigne piantate sul lato nord della collina (quello che prende poco sole) mi passa la poesia.
E invidio la Toscana, le grandi proprietà, la diversa mentalità dei produttori, le case ben tenute, i paesaggi curati, e anche molto marketing.

Però sono nato lì, quello è il mio terroir. Oggi il vino rischia di apparire uno status symbol e una bottiglia al ristorante ha prezzi astronomici (niente in confronto all’acqua minerale). Ma resta una delle espressioni più alte della cultura materiale, memoria di una civiltà antica, ultimo retaggio sapienziale.

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