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Corriere Della Sera

De Amicis e Giacosa, dialogo sull’ebbrezza ... Lo scrittore ed il drammaturgo, compagni di bevute, furono protagonisti di un singolare convegno sugli effetti del vino... Il 15 aprile 1880 Edmondo De Amicis alla Società Filotecnica di Torino conclude con il suo intervento un ciclo di undici conferenze sul vino. Prima di lui, tra gli altri hanno parlato scienziati come Lessema, Bizzozero e Lombroso, scrittori come Giacosa e Graf. Letteratura e scienza, leggerezza e serietà in connubio. C’è chi af­fronta il problema della “filossera” che minaccia i vigneti piemontesi chi parla del beneficio alla circolazione del san­gue che può dare un bere moderato e chi invece, cupo, ricorda i danni sociali dell’ubriachezza.

Spetta proprio a De Amicis, che volle e organizzò questo ciclo di incontri, e al­l’amico Giuseppe Giacosa (compagno di banchetti e bevute) portare freschez­za in un consesso in prevalenza serio. Edmondo discute degli “effetti psicolo­gici” del vino, Pin (Giacosa) parla dei “poeti del vino”. Le due conferenze si possono leggere oggi in due bei libretti, curati da Maria Luisa Alberico per la collana “Torino, capitale del vino” di Donnedizioni, e suggerire un dialogo imma­ginario fra i due amici.

Giacosa (bevitore sobrio) va sicuro, il vino fa bene alla poesia perché può essere un “medium” d’ispirazione: “Tutto ciò che è capace di commuove­re fortemente l’anima umana... deve ap­parire come un bene, se non in se stes­so, almeno in rapporto alla poesia”. E parte con una serie di citazioni che prende le mosse da Anacreonte il quale ha il dono di saper unire Bacco e Amo­re: “Bacco lo fa seguace d’amore, Amo­re lo fa ardere di sete”. De Amicis (bevi­tore spesso smodato) lo contraddice. Per lui il vino non è affatto il “cavallo del poeta”: può diventare, è vero, “l’uragano dell’ispirazione”.
In quanto all’amore, il vino per Ed­mondo può anche creare effetti ridicoli, quando non disastrosi. Chi beve e va in ebbrezza può cambiare “discorso cento volte”, ma ritorna “ostinatamente a quel dolce argomento”; “un fruscio di una veste” lo “scuote come una musi­ca”, il suo “occhio nuota nella dolcez­za”, la sua “bocca piglia degli atteggia­menti vezzosi da putti d’oleografia” e il suo “linguaggio è tutto intonazioni lan­guide, reticenze vanitose e piccoli motti a doppio senso, di cui sorridono striz­zando gli occhi con una compiacenza profonda”. Conclusione: “Non c’è nulla di più comico che il veder spuntare a po­co a poco, per effetto del vino, qualche volta sotto l’apparenza d’un uomo abi­tualmente austero, questa piccola effige nascosta di don Giovanni ringalluzzito, che s’era lontanissimi dal sospettare”.

In questa precisione figurativa c’è il sospetto di un autoritratto. Così come da un’esperienza personale sembra na­scere la riflessione sul “vino cattivo” che conclude il discorso. Edmondo sca­va a fondo sul potere distruttore del vi­zio del bere. Lo definisce un vero e pro­prio (colpevole) tradimento di quel “sangue della terra” che è donato dalla natura all’uomo. È tanto minuzioso nel descrivere cause ed effetti dell’ubria­chezza triste da far pensare che parli di qualcosa non ancora per lui del tutto ar­chiviato. De Amicis è un moralista per professione: farà del perbenismo una bandiera letteraria da sventolare. Giacosa è più gioioso e bonario, decisamente più indulgente.
Salva quei poeti che hanno bevuto troppo vino e per questo sono morti: “un poeta ci afferra, si impadronisce del no­stro senso artistico, a scapito del mora­le, ci costringe a un’ammirazione calda,
spensierata, ci eccita e ci sfibra, ci infon­de la deliziosa mollezza dei suoi costu­mi e del suo ciclo, e tutto ciò semplice­mente, quasi candidamente”. Ma a gio­co, all’improvviso, può capovolgersi. Chi ama bere e magari prendersi di tan­to in tanto una sbornia, ma non è un de­gustatore di vini. Non può comprende­re così la raffinatezza del Bacco in Tosca­na di Francesco Redi, che è un “buon assaggiatore”, un “esperto a far confron­ti”, anzi un “erudito a raccontare la sto­ria di ogni diverso prodotto”, ma che “sembra rimanere del tutto estraneo a quel che dice”; quasi fosse soltanto un “sommelier” e non un “poeta”.

E invece ascoltate Edmondo, quando descrive i degustatori di professione: “Bevono con gli occhi chiusi e dividono in due operazioni rigorosamente distin­te l’assaggiamento e la deglutizione... rivoltano il vino colla lingua, lo fanno scorrere lungo le gote... e non si derido­no che a stento a lasciarlo colare nella gola, dopo di che stanno ancora raccolti un momento per assaporare la voluttà dell’ultimo effluvio”. Capacità d’osserva­zione o esperienza personale di un bevi­tore quasi di professione?

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