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Corriere Della Sera

Dalla leggenda al computer. Ecco i misteri dell’Amarone ... Storia, leggenda, mito. Soprattutto fortuna. Sulla carta d’identità dell’Amarone, il vino veneto rosso di maggior fama al mondo, terra d’origine e successo sono le uniche voci note. Quel che resta avvolta dalla nebbia è la nascita. Gli storici prendono le distanze da quei “calices amariores” di Catullo che in uno dei suo carmi reclama bicchieri più amari, mezzo secolo prima della nascita di Cristo. E chi ci dice che l’Acinatico che Cassiodoro descrive come “recioto amaro” sia proprio l’antenato di bottiglie che oggi arrivano a sfiorare il valore di 5 mila euro? “La verità è che l’Amarone è un vino moderno, la derivazione secca del Recioto”, sostiene Angelo Peretti, enologo e fiduciario di SlowFood per quell’ansa del Veronese. “L’unico vino rosso importante - dice - che cresce senza sosta, da dieci anni, sul fronte delle vendite nazionali e internazionali. Piace a chi ama i superalcolici, dunque è molto apprezzato anche all’estero”. Tre anni di invecchiamento e un lungo processo per portare al giusto grado di appassimento le uve corvina, rondinella e molinara: gradazione alcolica tra i 14 e i 16 gradi. Gli estimatori dicono che ha raggiunto la perfezione anche grazie alla tecnologia, perché i computer controllano il grado zuccherino delle uve, fin da quando crescono sui filari. I detrattori sospettano che dietro il buon vino ci sia anche lo zampino pesante del marketing. I maligni poi sono convinti che l’Amarone debba la sua fortuna a una grandinata che alla fine degli anni ’80 distrusse il raccolto nelle Langhe piemontesi riducendo così drasticamente il Barolo in circolazione. E in cerca di un vino che potesse sostituirlo, i grandi dell’enologia
trovarono questo rosso imponente. Fatto sta che l’Amarone piace, le bottiglie aumentano, tanto che oltre la metà delle aziende vinicole in Valpolicella lo produce, con un giro d’affari di 90 milioni se ci si ferma al valore delle uve e di 205 milioni se si considera il fatturato all’uscita dalle cantine a marchio Doc. Le bottiglie vendute, secondo i dati del Consorzio tutela vini della Valpolicella, sono aumentate del 60 per cento negli ultimi tre anni, passando dai 5 milioni e 412 mila del 2005 agli 8
milioni e 570 del 2008.

Eppure, almeno a seguire la leggenda, l’Amarone è un vino corposo, contadino, nato per errore, da un Recioto “dimenticato in cantina e diventato secco, troppo amaro: Amarone appunto. Tra la fine dei ’30 e l’inizio dei ’40 succede qualcosa nelle cantine della Valpolicella classica, a nord-ovest di Verona: c’è fermento tra i produttori dell’epoca, i Masi, i Bertani, i Santi, gli Allegrini e i Quintarelli. C’è un recioto amaro che prende piede. Le etichette storiche se ne contendono la paternità a colpi di bolle di accompagnamento e bottiglie storiche. La cantina sociale di Negrar ha la lettera di spedizione del ’42 di una partita di fiaschetti di amarone 1938. Giorgio Bolla, erede di Alberto, il nonno dell’Amarone, mette insieme i ricordi di famiglia e i documenti per un libro di prossima pubblicazione che “farà luce finalmente sulle origini di questo vino”. Sostiene, prove alla mano, “che non si trattò di un caso”, che quel vino “fu studiato in laboratorio”. E come una Cenerentola della bottiglia si trasformò da vino contadino in prodotto di culto. “Questa fu l’intuizione di mio nonno e di zio Giorgio - racconta - il prodotto esisteva ma andava raffinato. E quando ci riuscirono, lo presentarono a Milano, nel ristorante Da Tantalo, per gli 80 anni del capofamiglia. In etichetta c’è una foto seppiata del nonno: era il 1953, ma il vino aveva tre anni. Al banchetto c’erano collaboratori dell’azienda, amici, clienti storici, tutti uomini, con la sola eccezione di nonna Ida”. Era nata una leggenda.

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