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Corriere Della Sera

Quel sapore che mi ha cambiato la vita ... All’apparenza Massimiliano Alajmo è un cuoco alto. In realtà è uomo profondo. Il fatto che sia uno dei più grandi chef del mondo deriva dalla profondità di cui è intriso e che ricerca (profondità e ricerca sono i suoi vocaboli preferiti) in ogni aspetto dell’esistenza e della cucina nel ristorante Le Calandre di Rubano, zona est di Padova. All’angolo della statale, pasticceria-bar, negozio per gourmet dall’altro lato, sopra l’albergo e sotto il ristorante gastronomico, tre stelle Michelin (quattro con quella dell’altra sponda della famiglia Alajmo, la Montecchia), i punteggi più alti sulle guide più importanti, dall’Espresso al Gambero Rosso. Tra la cucina e l’ingresso c’è una sala appartata, con un grande tavolo di legno. Qui ci si ferma con Massimiliano e con Raffaele, manager, alter ego, fratello nel senso più pieno del termine. Raffaele versa bollicine, Massimiliano sbuca dalla cucina con due fette di pane spalmato con tm paté fatto in casa che sa di merenda d’altri tempi.

“Tante sono le cose che mi hanno cambiato. Il filo conduttore è l’amore. Una lettura, un incontro, persone che mi hanno arricchito, ma prima di tutto lo devi volere tu, interiormente. Avviene quando la persona si accorge di aver ricevuto qualcosa. Gli incontri sono situazioni che ti sconvolgono, come la nascita di un figlio, come la scoperta di una prospettiva diversa. Passavo davanti a una ludoteca e c’era un bambino, avrà avuto quattro, cinque anni e gli ho detto: “Ciao bello”. Lui non ha risposto, poi, quando già stavo per girare l’angolo, mi è arrivata la sua vocina: “Non mi chiamo bello, mi chiamo Angelo””.

Se è l’amore che cambia la vita, nella storia di un grande cuoco diventa un piatto. “Il mio primo tema libero in prima elementare lo intitolai “La torta della domenica”. Interpretavo la realtà, comprendevo il senso dell’invenzione attraverso le torte della mamma. Come quando mi preparò una torta di compleanno con Topo Gigio e la crema verde fatta con gli spinaci e la menta. Un sapore che ricorderò per sempre, un sapore mistico, congiunzione di terra (spinaci) e cielo (lamenta). Ricordo il suono di una forchetta sbattuta nella ciotola con latte, ricotta e polvere di cacao. Un suono che ti dà la dimensione di qualcosa di favoloso, fatto per te in quel momento, qualcosa che hai ricevuto e che sa di energia e spazio senza tempo, come la relazione tra madre e figlio. Tutte emozioni che non sono trasferibili.” Però qualcosa si trasferisce anche a noi, alla fine, grazie alla voce avvolgente di Massimiliano, alla sua cucina sensazionale, cioè di sensazioni. “Siamo conquistati da un profumo che ci racconta un mondo, che è memoria di vita. C’è un percorso che, attraverso i citique sensi, viaggia verso il sesto, quello che dà valore alle cose”. La mamma di Massimiliano si chiama Rita, il papà Erminio. Direttore d’albergo, riprese in mano il ristorante di famiglia e con il figlio maggiore Raffaele conquistò la prima stella. Massimiliano, allora, transitava dai profumi del ristorante all’istituto alberghiero di Abano, scalpitante come un capitano di prima nomina a cui il molo dà un senso di inquietudine che si può placare solo con la navigazione. “Mio padre e mia madre sono stati i miei grandi maestri e hanno lasciato a me e mio fratello le chiavi del ristorante. Io avevo 19 anni. Quando dei genitori si comportano così, c’è di mezzo un coraggio tutt’altro che comune”.

Maestri oltre la famiglia: Marc Veyrat, Michel Guérard, Alfredo Chiocchetti, nomi indelebili per chi ama affrontare la grande cultura europea attraverso la tavola. “E poi mio zio, Giovanni Chimetto, storico della gastronomia, genio della cucina. Una volta ero alle prese con uno dei miei piatti e inseguivo un sistema quasi matematico di regole. Lui mi spiegò: “Non esiste un sistema, a me piace da matti il riso bollito con il pompelmo, ma se lo propongo me lo tirano dietro”. Mi ha fatto ragionare, così ho compreso, cominciando a stravolgere quel piattò. Il percorso gastronomico è un percorso di comprensione. Io frequento la cucina perché è il modo di relazionarmi con la vista. L’avanzamento non è mai in avanti, ma in profondità”. Profonda è la relazione con Raffaele. “Ci completiamo nella diversità. Cerchiamo i contrasti per arriva- rea una decisione a metà tra la sua idea e la mia. Ma sempre vedendo nell’altro sempre il segno più”. E poi c’è il rapporto con il cliente. “L’obbiettivo è dargli quel qualcosa che non si aspettava quando è entrato”. “Ogni piatto ha una sua storia”. Massimiliano Alajmo li ha raccontati nel suo libro “Ingredienti”. Ma ci sono ingredienti che non stanno “sul” piatto, ma “dentro”. Come nel caso del risotto allo zafferano e liquirizia, pensato per sua moglie Maria Pia. “Giallo intenso, polvere nera che diviene quasi dorata al contatto. La luce ha la capacità di trasformare ogni elemento. La radice è la parte sottoterra, tenebrosa, che sale e incontra il pistillo, la parte illu- minata. Ognuno di noi ha una parte oscura e una luminosa”. Lei è quella luminosa, azzardo. “Non c’era questa intenzione, ma vedi, la tua rilettura è proprio quello che mi interessa. E il bambino che dice “non mi chiamo bello, ma Angelo””.

La storia di un grande cuoco è una storia d’amore e di torte. Da quella di mamma Rita e quella di Maria Pia. “Lei è calabrese e mi ha conquistato con la pitta’n chiusa. Lievito naturale, vino frizzante, spezie, zucchero, frutta, impastata in casa e portata al forno del paese. Una torta che si tramandano di madre in figlia.Ci sento le mani di tutta la famiglia. Ha una ritualità pazzesca. E l’aspetto innocente della tradizione, fare qualcosa senza sapere cosa stai facendo, eppure è qualcosa che attraversa il tempo. Ne ho scritto sul muro”. Sul muro? “Ho una parete, a casa, nella dispensa, su cui registro pensieri, idee. E aperta anche agli amici”. Cosa scrivere? Grazie per le profondità. Di vita e di menù.

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