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Corriere Della Sera

Pietre contro la polizia per 1’”intifada del pane” ... Ben Ali ordina la chiusura di licei e università... Non si fermano le proteste degli studenti contro il carovita. Il presidente parla in tv e denuncia: “Atti di terrorismo pilotati da forze straniere”... La rivolta raggiunge il campus universitario Al Manar alla periferia della capitale verso le io di mattina. Almeno 500 studenti escono in corteo. “Vendichiamo i nostri morti. Basta con la mafia al governo. Lavoro e pane per tutti”, inneggiano gli slogan. Non sembrano davvero organizzati per la battaglia con gli agenti. Giovani con le cartelle di libri e dispense sottobraccio, ragazze coni tacchi alti e le borsette. Ma di fronte a loro si schierano le “tigri nere”, come qui chiamano i corpi speciali antisommossa della polizia. Via Internet e sms arrivano messaggini che invitano a sfilare verso il centro della città. “Non abbiamo altro mezzo per comunicare. Le radio nazionali sono al servizio della dittatura, la televisione è peggio. I giornali dicono niente o menzogne”, sostiene Haget, studentessa di psicologia al terzo anno. Il primo scontro avviene all’incrocio che porta verso la superstrada diretta alla Medina. La polizia carica: uniformi scure attillate, elmetti neri, mazze di legno e gomma dura, grandi scudi in plexiglas. Qualcuno tira pietre, che cadono nel traffico e causano il caos. I manifestanti fuggono verso le vie laterali e su un terrapieno. Nel momento più teso, un gruppetto di ragazzi intona l’inno nazionale: “Siamo tutti per la gloria del nostro Paese”. E’ la risposta a chi li accusa di essere al servizio dell’eversione fondamentalista. “Tutta propaganda. Vogliamo solo lavorare, e i nostri diritti di cittadini. Perché le famiglie legate al presidente devono monopolizzare le ricchezze dello Stato?”, sbottano due che si sono coperti il viso con fazzoletti contro i lacrimogeni. Meno di due ore dopo la mobilitazione raggiunge le facoltà umanistiche nel campus del centro, un serbatoio di 1.000 iscritti, tanti residenti nelle province che ora sono al cuore della tempesta. Qui il confronto è molto più violento. Un migliaio di ragazzi è asserragliato attorno all’edificio della biblioteca centrale. Persi- noi professori sembrano d’accordo con il movimento degli studenti. Si riuniscono in un’aula al secondo piano e decidono di lanciare un appello pubblico “per la difesa dei diritti umani”. Qualcuno propone di rinviare gli esami del primo trimestre. “Ormai non è più questione di esami. Qui è in gioco il futuro del nostro Paese e gli intellettuali come noi non possono essere assenti”, gli replicano in tanti. Alle dodici e mezzo la polizia spara lacrimogeni e blocca con forza chiunque cerchi di uscire. Nelle aule, per i corridoi, lungo la scale è il caos. Girano voci di massacri nella provincia centro-occidentale, specie nelle città di Kasserine, Ei Kef, Sidi Bouzeid, Rgeb, Seliana, Tala (qui si dice siano stati trovati i cadaveri di 5 giovani) Gli attivisti dell’Unione Generale Studentesca Tunisina arringano i compagni. Non hanno neppure un megafono. “Blocchiamo gli esami. Tutti in piazza contro la dittatura”, si sgolano. C’è attesa per il discorso del presidente. Magari offrirà un motivo di tregua. Era previsto per le due del pomeriggio. Ma è rinviato. E intanto qui si parla di 50, forse 60 morti negli ultimi giorni. Nessuno crede al bilancio di 14 fornito dal governo. Zine al-Abidine Ben Ali parla infine appena dopo le sedici. Un discorso duro, deciso, non troppo diverso da quello pronunciato due settimane fa. E’ vero che promette “300.000 nuovi posti di lavoro”. Ma lascia ben poco spazio al dialogo con i manifestanti. Per lui la protesta è
“guidata da minoranze violente, da bande mascherate organizzate da forze straniere che non vogliono il bene del nostro Paese”. Le manifestazioni sono “atti di terrorismo” e come tali vanno represse. “Da domani tutte le scuole, specie licei e università, saranno chiuse a tempo indeterminato”, annunciano i portavoce. Il muro contro muro si fa ancora più aspro.
“Peccato. Un’occasione mancata. Ben Ali avrebbe almeno potuto cercare di emulare Habib Burguiba, l’ex presidente, che di fronte alle rivolte dopo l’abolizione dei sussidi per il pane nel 1983 tornò sui suoi passi e chiese umilmente scusa al Paese. Ma oggi Ben Ali criminalizza tutta la protesta, che pure è sacrosanta, visto l’aumento della disoccupazione e del costo della vita”, sostiene apertamente Kamel Zaiem, vicedirettore di Le Quotidien. Il presidente non sembra neppure ascoltare gli appelli alla moderazione che arrivano dalla comunità internazionale. Dopo che Washington negli ultimi giorni aveva chiesto di limitare la repressione, ieri anche l’Unione Europea ha espresso la propria critica all’uso della forza. Aggiunge Zaiem: “Ben Ali poteva cercare un compromesso. Ha invece scelto la via della fermezza. Il rischio è ora che davvero la situazione possa degenerare. Tutto è possibile”. Questo naturalmente lo dice a un collega straniero ma non le scrive sul suo giornale. Qui i media nazionali si limitano a pubblicare i comunicati governativi senza alcuna critica. Non c’è stampa d’opposizione. La libertà di parola resta una chimera lontana. “Da noi trionfa l’autocensura”, dicono i giornalisti, che però non vogliono essere citati per nome. “Anche i media privati appartengono alle grandi famiglie legate ai circoli di governo. Chi riporta notizie che non piacciono al regime perde il posto”.

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