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Corriere Della Sera

Pizza & Champagne ... Per brindare a un nuovo incontro … Con coda d’astice o foie gras. Tre chef raccontano la seconda vita di un ex cibo povero … Otto tranci in quarantacinque minuti, divorati da Julia Roberts tra i vicoli di Napoli per puro piacere, dopo quelli mangiati per esigenze di copione sul set di «Eat, Pray. Love». Un triangolo farcito con pomodoro e basilico addentato dalla schizzinosa Madonna al David Letterman Show (pazienza se accompagnato da un Martini cocktail). Mentre a Napoli si discute la candidatura dell’arte della pizza napoletana tra i capolavori dell’Unesco, il cibo proletario finito nei piatti dei potenti della storia - dalla regina Margherita di Savoia a Bill Clinton - vive una nuova stagione, raccontata da tre pizzaioli di rango. Una rivisitazione del piatto “glocal” rintracciabile in Giappone come in America, ma vincolato a rigorose regole casalinghe, che non conoscono variazioni dal 1899, anno in cui Raffaele Esposito infornò per la moglie di re Umberto I la prima pizza pomodoro, mozzarella e basilico. Tre storie diverse, da Nord a Sud, dal veneto Simone Padoan, inventore della pizza “degustativa”, ai campani Gino Sorbillo e Luigi Dell’Amura, eredi di una tradizione popolare che oggi coincide con qualità e ricercatezza. Nella pizzeria “I tigli” di San Bonifacio, in provincia di Verona, Simone Padoan, 40 anni, ultimo di 9 fratelli tutti cresciuti intorno a un forno a legna, dal 2000 ha cominciato a sperimentare. La sua pizza vale il viaggio anche per gli chef Massimiliano Alajmo e Aimo Moroni, che di tanto in tanto si mescolano ai clienti abituali per assaggiare le pizze condite con capperi di Salma, acciughe del Mar Cantabrico, olive di Taggia e prosciutto San Daniele “riserva 18 mesi”. Pizze con julienne di seppie crude, finocchio, capperi e mandorle tostate, impasti di farine naturali “conditi” con maialino da latte, cavolo nero e patata cornetta o addirittura con foie gras, funghi pioppini, lardo, cialde di grana e germogli. “Serviamo non più di 25 pizze, i menu non devono essere enciclopedie: proviamo ad andare oltre le vecchie capricciose, le uniche “trasgressioni” ammesse fino a poco tempo fa”, dice Padoan. Senza le esagerazioni del newyorchese Nino, finito sulle pagine del New York Daily News per una pizza ricoperta di coda d’astice, crème fraiche e 4 tipi di caviale iraniano, anche ai “Tigli” la pizza può trasformarsi in esperienza gastronomica, con prezzi adeguati alla portata. “Quelle più elaborate costano anche 28 euro, e si abbinano a champagne Blanc de blancs come il Simon Selosse”. Da sempre piatto giovane e anticrisi, piatto simbolo della cena-fuori alla portata di tutti, la pizza riscopre la sua radice nobile e il suo potere conviviale, smentendo la polemica previsione di Matilde Serao che immaginava la pizza fuori da Napoli “una stonatura e un’indigestione”. A Milano la pizzeria Malastrana Rossa - forno a legna, prezzi popolari e clientela alla moda - mette in fila più persone di un ristorante stellato. E anche a New York la pizza, confusa per anni con i più seriali street food, si prende la rivincita: Keith Mc Nally, re della ristorazione di Manhattan, scommette tutto su Pulino’s, la pizzeria glamour a Bowery con piastrelle bianche alle pareti che vengono dalla metropolitana e un menu di pizze ai quattro formaggi e salame piccante. “Non esiste un altro piatto più italiano e allo stesso tempo più mortificato da porcherie plasticose e combinazioni improbabili - spiega Paolo Marchi, ideatore del congresso della cucina d’autore “Identità Golose” -. I cuochi hanno sempre guardato ai pizzaioli con sufficienza, non c’è stellato che abbia una pizza in carta. Ma ora, e non solo per la crisi, questo atteggiamento sta cambiando”. A Napoli, Gino Sorbillo, giovane pizzaiolo con solido pedigree familiare, mette in fila i clienti anche per 3 ore fuori dal suo locale in via Tribunali. “La leggerezza è il mio segreto”, spiega questo 36enne che sforna pizze per 12 ore al giorno e che ha servito a Papa Ratzinger una pizza margherita a forma di cuore. Erede di una tradizione tracciata da Luigi, capostipite dell’unica famiglia al mondo di 21 figli tutti pizzaioli, spiega che ogni pizza va fatta come “una mamma la cucinerebbe a suo figlio”, seguendo il tracciato dei quattro ingredienti base e facendo uso parsimonioso di lievito. “La pizza è un prodotto antico che oggi ha una nuova veste”, spiega Luigi Dell’Amura, che nella pizzeria di Vico Equense (forse la più grande del mondo con i suoi 1.500 coperti) porta avanti la tradizione della “pizza al metro”. Quel lungo rotolo condito, sfornato per la prima volta 8o anni fa con gli avanzi della pasta del pane, per sfamare nel cuore della notte i fornai, oggi è il fiore all’occhiello della gastronomia sorrentina. Dopo quell’infornata casuale, la famiglia Dell’Amura ha confezionato chilometri di margherite, secondo alcune regole precise che la differenziano da quella napoletana: impasto morbido e spesso, condimento generoso, lievitazione breve e cottura mite e prolungata. “Quando ero piccolo la cena fuori casa era legata a una ricorrenza: noi l’abbiamo trasformata in qualcosa alla portata di tutti, ma con il ricordo di un’esperienza di gusto”.

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