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Corriere Della Sera

L’aumento dei prezzi del cibo Paradosso del nuovo mondo ... Nel dopo-crisi che non comincia mai e con le piazze mediorientali attraversate da proteste e manifestazioni, non si sta prestando la dovuta attenzione a un preoccupante fenomeno: quello dell’aumento del prezzo delle materie prime soprattutto alimentari. E se è Immediata la connessione tra proteste nei Paesi emergenti e costi del cibo, anche i governi democratici dell’Occidente hanno di che allarmarsi. L’indice Fao (la Food and agricolture organization delle Nazioni Unite) dei prezzi alimentari - una media dell’andamento di quelli dei cereali, della carne, dello zucchero e altri prodotti che compongono la dieta fondamentale delle famiglie più povere soprattutto nei Paesi emergenti - ha raggiunto quota 231. E il livello massimo da quando l’indice ha cominciato a essere calcolato nel 1990. L’incremento è tale da aver superato quello dell’estate dei record, quella del 2008, quando il barile del petrolio era arrivato a 147 dollari. Da allora, anzi, i prezzi degli alimentari avevano smesso di essere un problema: la crisi 2008-09 aveva fatto crollare i valori dell’indice fino al valore minimo di 141 nel febbraio 2009 quando la crisi raggiunse il suo apice. Ma poi, anche a causa del fiume di liquidità presente sui mercati finanziari, i prezzi delle commodities in generale e anche quelli dei prodotti alimentari sono ripartiti. A differenza che in passato, non sono però stati spinti verso l’alto dalla crescita economica dei Paesi ricchi - solo timida e graduale in questa occasione. Gli aumenti dei costi delle materie prime si sono verificati soprattutto a causa della rapida crescita dei Paesi emergenti. A cominciare dalla Cina, Paese che alimenta la sua crescita con i metalli che importa e i suoi ceti urbani con il cibo comprato all’estero. La prima conseguenza di questa corsa dei costi è stato il ravvivarsi dell’inflazione. E questo non tanto in Europa e negii Stati Uniti dove i prodotti alimentari contano poco nei consumi delle famiglie, quanto nei Paesi emergenti dove il cibo vale invece, da un terzo a un quinto del paniere di spesa dei cittadini. Succede co che, dopo armi di ritrovata stabilità monetaria, oggi l’inflazione varia dal sei per cento del Brasile all’otto per cento dell’India per arrivare al dodici per cento dell’Egitto. L’ex-presidente Mubarak ha certamente imparato a sue spese che un’inflazione troppo alta - specie se associata a una crescita diseguale - può diventare un grave problema sociale. Ma l’inflazione al consumo ha raggiunto il cinque per cento anche in Cina con i prezzi alla produzione che aumentano ancora più rapidamente. Se il costo della vita complessivo viaggia verso il cinque per cento, l’inflazione dei prodotti alimentari è tipicamente due volte più grande. L’alto costo del cibo rappresenta ormai un grave problema nel bilancio delle famiglie in molte parti del mondo. E rischia di deflagrare pesantemente. Ma quali possono essere i rimedi? Per frenare i prezzi delle commodities la Cina dovrebbe rallentare la sua corsa. Come si fa però a chiedere ai cinesi di viaggiare a velocità inferiore che negli ultimi trenta anni, dato che Pechino ha un reddito pro capite ben più basso dei Paesi europei e anche di molte nazioni emergenti? Tanto più che si può ben rinfacciare ad americani (e anche europei) i loro modelli di consumo. E così, se la Cina non rallenta, sarà il resto del mondo a dover affrontare il problema dell’inflazione alimentare e delle materie prime. Come? Con costi di produzione crescenti, rallentare la domanda è l’unico modo rapido di tenere a bada l’inflazione importata. Ma il livello dei tassi di interesse dell’Eurozona, fermo all’l% da 22 mesi, resta “adeguato” per Jean Claude Trichet e anche Bernanke ha rinviato almeno alla fine del 2011 la fine delle politiche monetarie espansive cominciate con l’agosto 2007. E se le banche centrali di Europa e America non si muovono, meno che meno lo faranno quelle dei Paesi emergenti già oggi invasi di capitali che tengono alto il valore delle loro valute. E qui si arriva al paradosso: per combattere l’inflazione alimentare il mondo non cinese può solo azionare la leva fiscale in senso restrittivo. Ma quale governo andrà dai suoi elettori a raccontare che bisogna tagliare le spese o aumentare le tasse per consentire ai cinesi di continuare ad arricchirsi e fornire benzina alla crescita mondiale?

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