02-Planeta_manchette_175x100
Allegrini 2024

Corriere Della Sera

“Il mio vino è un’opera d’arte” ... Nell’eremo di Sandro Chia. Il pittore divenuto celebre in una sera con una mostra a New York racconta i paesaggi e i colori della sua vita... Un rudere abitato da pecore e fantasmi di eccidi, una passione per la terra. Così il rosso con le etichette dipinte ha potuto vincere il primo premio a Londra... Il paesaggio è quello, incantevole, fra il giallo e l’ocra, punteggiato dai lecci e dalle vigne, delle colline che si affacciano sulla Val d’Orcia, a due passi da Montalcino, nel senese. Sulla sommità, un castellotto in pietra di foggia trecentesca (ricostruito sasso dopo sasso con materiali originali) dall’aspetto austero, quasi drammatico: davanti
all’ingresso spoglio, la lavanda fiorisce ma viene divorata subito dai cinghiali, le azalee non riescono a fiorire per il gran vento. È il Romitorio, l’“eremo” di Sandro Chia, pittore e scultore divenuto famoso e ricco appena sbarcato a New York (nel 1983 la mostra al Guggenheim, nel 1984 la consacrazione al Metropolitan Museum), esponente di spicco della Transavanguardia, il movimento pittorico sostenuto da Achille Bonito Oliva di cui facevano parte anche Mimmo Paladino, Francesco Clemente, Enzo Cucchi e Nicola De Maria. “Comprai il castello, e duecento ettari di terra intorno, nel 1985 con il ricavato della vendita di una grande opera che mi permise di fare anche i lavori di restauro. Era un rudere abitato dalle pecore e un po’ sinistro, luogo di lontani eccidi e di fantasmi (si narra che qui i fiorentini trucidarono i familiari delle truppe francesi corse in aiuto ai senesi); ho cercato di rispettare la sua storia. Anche lo studio, un capannone che non mostro a nessuno, è fuori da qui”, racconta l’artista che, in antitesi alla riservatezza del luogo, ci accoglie con grande cordialità e un’assenza di spocchia disarmante. Sulla soglia dei sessantacinque anni (è nato a Firenze nel 1946: “Sono stato uno degli ultimi ad essere battezzato nel Battistero, che privilegio!” ricorda), dopo vent’anni trascorsi negli Stati Uniti, è tornato a Roma, suo primo amore (vi ha vissuto dieci anni dai ‘70 all’80) dove ha la famiglia, la moglie Marellina e due figlie, Costanza e Teodora, e lo studio che è la sua vera fucina di lavoro, una ex tipografia piegata ai bisogni dell’artista. Ma Chia trascorre lunghi periodi anche al Romitorio dove nel 1987 ha avviato la produzione di vino. Produzione ormai importante di cui si occupa anche Filippo, il primo figlio, quasi trentenne: duecentomila bottiglie all’anno (alle vigne montaicinesi se ne sono aggiunte altre, a Scansano e a Castelnuovo dell’Abate). E il Brunello del Romitorio piace: quello del 2004 l’anno scorso si è guadagnato il premio di miglior rosso del mondo all’International Wine Challenge di Londra. Tutto quello che tocca si trasforma in oro: è successo fino dagli esordi, non capita a tutti. “Quando sono arrivato a New York mi sono accorto che c’era un bisogno primario, non soltanto la curiosità, di vedere quest’arte sperimentale che, dopo tante performance, installazioni e oggetti, tornava al pennello. Questo spiega, forse, il mio successo, perfino esagerato. Quando feci la prima mostra alla galleria newyorkese di Gian Enzo Sperone, che con la sua prima sede a Torino aveva rappresentato negli anni Sessanta la ribalta della pittura internazionale in Italia, i quadri furono venduti tutti nel giro di un’ora. Andy Warhol scrisse sulla sua rivista Interview: “Sono andato a vedere la mostra di un giovane artista molto “hot” (caldo), Sandro Chia; mi è piaciuto, finalmente si rivedono i quadri, si sente l’odore delle vernici. Però, bisogna andare lì con il contante perché non ha un conto corrente”. Con la Transavanguardia la pittura italiana, per la prima volta, ebbe un’attenzione internazionale anche perché l’America era la ribalta dell’arte a quell’epoca, anche sotto il profilo commerciale. Nonostante quest’improvvisa popolarità non mi sono sentito un miracolato; mi sembrava dovuta: perché un pittore californiano doveva essere avvantaggiato rispetto a uno come me, cresciuto a Firenze, nella culla dell’arte?”. Cresciuto nella culla dell’arte, ma anche scappato presto dal destino borghese che i genitori sognavano per lui, il più possibile simile a quello del fratello ingegnere. Ma Chia decide di fare la scuola d’arte di Porta Romana a Firenze (“ho avuto maestri straordinari, come Mario Luzi” ricorda) e poi se ne a va a zonzo per l’Europa, ovviamente anche in India (“erano viaggi allora, altro che turismo”). Nel ‘68 approda a Parigi in pieno Maggio francese. “Sono stato in carcere per 63 giorni e poi espulso dal Paese per vagabondaggio - racconta Chia -. È stato comico, anni dopo, l’imbarazzo del ministro della Cultura francese, Jack Lang, quando commissionandomi una grande scultura, che ora è davanti al museo di Nizza, venne a sapere che, per quella vecchia espulsione, non ero gradito in Francia. Lang, elegantemente, fece cancellare tutto e nel 1992 mi nominò Cavaliere dell’ordine delle Arti e delle Lettere”, ride. Nel ‘71, l’approdo a Roma e l’incontro con Achille Bonito Oliva che sostiene il nuovo movimento pittorico di cui fa parte anche Chia. Rammenta l’artista: “Achille mi assomigliava nel suo “teppismo” culturale, nell’essere provocatorio, fuori da ogni Accademia, napoletano. Non c’era un calcolo da parte sua perché non c’era niente da guadagnare, non c’era un’economia. In Italia il mercato dell’arte esisteva soltanto a livello locale, era atomizzato: a Firenze vendevano Scatizzi, Rapisardi, Adami, a Roma Gianfranco Baruchello, il Duchamp italiano. Non si guardava all’estero: al massimo l’occhio arrivava a Parigi; Londra era un pianeta lontano. Ad un certo punto decisi di andare negli Stati Uniti. Appena arrivato, ebbi la sensazione di aver fatto la cosa giusta: a New York l’artista era visto senza sospetto, senza pregiudizi. Quello era il luogo dove potevo perseguire la mia felicità. Ci sono rimasto vent’anni”. Felicità che a livello personale si è coniugata in due matrimoni (la prima moglie, italiana, la seconda americana), due figli e in una vita brillante fra Manhattan e Miami, dove ancora ha casa e studio. E tanto lavoro: pittura, scultura, mosaici, murales. I suoi studi erano sempre enormi, dai seicento metri quadri di Chelsea, a Manhattan, alle sei case (una era per i quadri grandi, una seconda per i piccoli, le altre per abitarvi e per gli amici) di Reinbeck, nel parco della valle dell’Hudson, a due ore di macchina da New York. “Ma non mi faccia parlare dei miei studi negli Stati Uniti perché non ne sono capace - confessa Chia -; non voglio minimizzare né elogiare troppo quell’epoca della mia vita, mi suonerebbe falso. È come per gli amori; non riesco a parlarne oggi, per me non sono misurabili con il metro temporale, vent’anni possono essere come venti minuti”. Parliamo dei figli allora: ben quattro. Si ritiene un buon padre? “Confesso che non mi sento padre - risponde l’artista -: per me sono stati incidenti di percorso. Ma forse non sono stato poi così male visto che i miei figli non cercano di farmi fuori, non si pongono in maniera antagonista. Faccio parte di quella generazione di maschi che, volendo rompere i vecchi schemi, facevano a gara a chi cambiava più in fretta i pannolini. Me ne sono occupato e li ho fatti divertire. A New York avevo molti amici artisti con figli; la sfida era organizzare la festa di compleanno più folle. Alla fine mi sembrano sereni: del primo abbiamo detto, il secondo sta facendo l’università a Miami. Costanza e Teodora sono ancora piccole”. Contento di passare molto tempo nel nostro Paese, conclude: “Noi italiani siamo privilegiati e non ce ne rendiamo conto; abbiamo un’ottima qualità di vita, il cibo e il vino migliori del mondo. Peccato che qui i miliardari, anziché finanziare l’arte e la cultura come avviene negli Stati Uniti, si comprino le squadre di calcio!”.

Copyright © 2000/2024


Contatti: info@winenews.it
Seguici anche su Twitter: @WineNewsIt
Seguici anche su Facebook: @winenewsit


Questo articolo è tratto dall'archivio di WineNews - Tutti i diritti riservati - Copyright © 2000/2024

Pubblicato su