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Corriere Della Sera

Quei vini tra i ghiacciai nella cantina più alta … “In quota migliorano”. Tra le ferate e “vie” al limite nel cuore del Monte Bianco... “Questo non è un rifugio da polenta”, dice Armando Chanoine, il custode del rifugio Monzino, mentre tolgo l’imbragatura a Mila, dieci anni, che per salire quassù ha superato la prima ferrata della sua vita. E in effetti basta alzare gli occhi per capire che questo circo di alta montagna non è un posto qualsiasi. Ci troviamo nel cuore del Monte Bianco, in uno dei luoghi più carichi di storia dell’alpinismo. L’Aiguille Noire de Peuterey splende dorata e vertiginosa con il suo bel granito color miele, che contrasta con il bagliore delle seraccate del ghiacciaio di Freney. Più in alto la vetta del monarca d’Europa si nasconde capricciosa dentro una nuvola. Il Monzino è l’ultimo avamposto della civiltà. Oltre i 2.590 metri del rifugio ci sono solo le pareti e i ghiacciai del versante italiano del Monte Bianco, il più selvaggio. Il minuscolo quadratino si staglia su un’aerea sella tra i ghiacciai del Freney e del Brouillard, difesa da lavagne di granito lungo le quali si snodano i duecento metri della ferrata di accesso. Sono tre ore di salita, ma occorrono imbragatura, cordino e moschettone, per assicurarsi ai cavi d’acciaio, che, insieme ai gradini infissi nella roccia, aiutano a superare i tratti più scabrosi. Il rifugio è stato costruito nel 1965 grazie alla munificenza di Franco Monzino, il facoltoso uomo d’affari milanese appassionato di alpinismo che gli ha dato il nome. Di proprietà della Società delle guide alpine di Courmayeur, ha sostituito il glorioso rifugio Gamba, che sorgeva un centinaio di metri più a monte. “Sabato 16 luglio - riprende il custode - abbiamo ricordato il cinquantesimo anniversario della tragedia del Pilone centrale, sulle pareti che stanno sopra il Monzino”. Nel luglio del 1961 una tempesta di neve che durò una settimana bloccò a 100 metri dall’uscita del sesto grado più alto d’Europa due cordate guidate da Walter Bonatti. Sopravvissero solo tre alpinisti, mentre gli altri quattro morirono nella discesa. La tragedia, che tenne con il flato sospeso l’Italia, segnò la prima apparizione mediatica su larga scala della montagna. Ma l’epopea del Monzino è legata anche alle performance di scalatori famosi come Patrick Gabarrou e Christophe Profit, che sulle pareti di questa cattedrale geologica, grande tre-quattro volte i più imponenti circhi dolomitici, hanno tracciato vie al limite del possibile. Sono gli anni Novanta quando sul rifugio letteralmente “regna” il suo custode più famoso, Franco Garda, che ne fa una straordinaria palestra dei professionisti dell’alta montagna. Qui si tengono i corsi delle guide valdostane, dei tecnici del soccorso alpino, dei piloti d’elicottero che affronteranno le condizioni di volo più severe. “Il Monzino è oggi una meta ambita per chi viene in vacanza a Courmayeur - aggiunge il custode Chanoine -. Spesso i turisti salgono quassù con l’aiuto di una guida: il panorama da solo merita la fatica. Fu lo stesso che poco più lontano ammirò papa Wojtyla quando nel 1986 celebrò la messa al Mont Chetif. Ma dal Monzino continua a transitare l’élite dell’alpinismo mondiale, attratta da vie come la Peuterey, il Pilastro rosso, il Pilone centrale, le creste di Brouillard e dell’innominata, che costituiscono il sogno di ogni scalatore”. Compare un piccolo nepalese e urla che il pranzo è pronto. È il cuoco, si chiama Chhongba Sherpa e ha imparato rapidamente la cucina italiana e valdostana. Non è la sola stranezza del Monzino, che negli anni è diventato anche la cantina più alta d’Europa. “I produttori dei bianchi con le bollicine di Morgex e La Salle si sono resi conto che il vino migliora se portato in quota. Così ogni anno cento magnum vengono faticosamente issate quassù per un invecchiamento che dura dodici mesi. Saranno poi riportate a valle per essere vendute a un pubblico molto selezionato insieme a una piccozza tradizionale. Gli esperti assicurano che questo vin d’altitude è eccezionale”. Nel pomeriggio arrivano le nubi, che nascondono completamente le cime e cancellano il fondovalle. Il sole resiste soltanto qui. Anche il cuoco “sherpa” si concede una pausa di riposo. “I feel at home, mi sento a casa”, dice indicando le montagne e basta guardarsi intorno per capire che ha ragione.

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