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Corriere Della Sera

Quella notte (con Sinatra) che lanciò il Franciacorta ... Era un uomo da “bicchiere di bourbon in una mano e sigaretta nell’altra, in piedi in un angolo buio del bar, tra due bionde attraenti”. Così lo scrittore Gay Talese ritrae Frank Sinatra in un magistrale articolo su Esquire nel 1966. Si intitolava “Sinatra ha il raffreddore”. Era la vigilia di un concerto. Al cantante figlio di un pompiere originario della Sicilia colava il naso. Vittima “di un disturbo così comune che quasi tutti considerano banale, ma che lo immerse in uno stato di angoscia, depressione, panico e rabbia”. L’alcol lo placava, come un amico sempre vicino che ti ascolta. Sinatra non ammorbidiva le corde vocali che lo avevano trasformato in milionario solo con i superalcolici. Gli piaceva anche il vino italiano, soprattutto dopo il ritorno nel 1986 a Milano, per un concerto da tutto esaurito al PalaTrussardi, con il premier Bettino Craxi in prima fila. Volle vino italiano anche alla cena di beneficenza nel 1992 in California, a Palm Desert. Quella sera, con Dean Martin e Julio Iglesias, dopo aver intonato sul palco “My Way”, rilassò l’ugola con un vino dalla Franciacorta che Emanuele Rabotti, intraprendente e giovane produttore, aveva portato di persona. Era un Brut millesimato, il Cabochon, armoniche bollicine. Il gradimento di Sinatra, reso esplicito con una lettera della moglie Barbara a cui fu regalata una bottiglia con etichetta in argento di Buccellati, contribuì a far decollare quel vino nel mondo. Adesso Rabotti è pronto per una nuova scommessa: un Dosaggio Zero (ovvero: con l’aggiunta di vino della stessa partita dopo la sboccatura), fresco e cremoso, con una etichetta bicolore lucente che ricorda la carrozzeria di un’auto, evocata nel nome, Coupé.
Il vignaiolo che riuscì a passare una serata con Sinatra è ora un simpatico cinquantenne. All’epoca era un mancato notaio per la scelta, dopo la pratica legale, di seguire le orme del padre Paolo e di lavorare tra le botti invece che con le stipule. “Un amico ristoratore di Toronto - racconta Rabotti - mi chiese se volevo inviare del vino per la cena in cui 150 commensali pagavano centomila dollari a testa per una causa benefica. Dissi di sì, a patto di poter partecipare alla festa. Ci riuscii. Portai il Cabochon che avevo appena visto nascere”.
Ventun anni dopo, Rabotti è un protagonista del vino italiano. Dalla sua cantina escono 500 mila bottiglie l’anno, con incassi per 4,5 milioni di euro. Il padre era un imprenditore avicolo che nel 1972 vendette agli inglesi la Cipzoo investendo su 12 ettari a Cazzago San Martino (Brescia). Con la moglie Paola Rovetta, sperimentò i primi Franciacorta con il Metodo classico. All’inizio con poche bottiglie che talvolta scoppiavano in cantina, davanti agli occhi divertiti degli amici di sempre, la famiglia Berlucchi. Poi, anno dopo anno, sono nati il Prima Cuvée, il San Sevén, il P.R., il Salvàdek ed il Cabochon, la cuvée che piaceva a Sinatra.
Paolo Rabotti diventò nel 1990 il primo presidente del Consorzio Franciacorta. L’azienda si è espansa: raccoglie uve da 70 ettari. Dieci anni fa è stata costruita una nuova cantina su tre livelli, dove i liquidi si spostano solo con la forza di gravità, senza pompe che li possono alterare. Vengono usate tecniche tradizionali francesi, come la fermentazione in piccole botti. La linea di condotta di Emanuele è: “Il vino nasce da un’idea”.
Quella del Coupé che sta per debuttare è la ricerca di bollicine che “inducano all’ottimismo, facili e fruibili, a meno di 20 euro a bottiglia in enoteca”. Il nome evoca i motori, ma nasconde un riferimento enologico. “Significa taglio - dice Rabotti - e ricorda l’assemblaggio che si fa in cantina. Questo Coupé è un taglio di Chardonnay con una spruzzatina di Pinot bianco e nero. Si affina in acciaio e legno, sta sui lieviti oltre due anni. Il profumo ricorda la pesca bianca, nel bicchiere svela tocchi vegetali e marini”. È un omaggio agli anni Settanta in cui la cantina debuttò. Sarà lanciato con un fumetto stile vintage, in cui compaiono i genitori di Emanuele.
“È immediato e abbordabile - dice Rabotti - perché il rischio è di portare sul mercato vini preziosi e inarrivabili come le star che vedi al cinema”. Di non volare troppo alto c’è bisogno, riflette il vignaiolo, pensando all’ultimo Natale, il periodo di maggiore vendita per i vini dei brindisi. “Era forse da 1929 che non girava così male, per fortuna cresce l’export”. E, intanto, c’è sempre un vino nuovo da scoprire e un anno migliore da inseguire, come cantava Sinatra in “It was a very good year”: “Penso alla mia vita come un vino d’annata maturato in vecchie botti, sempre dolce e chiaro. È stato un anno stupendo”.

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