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Corriere Della Sera

La civiltà del bere che sa anche
staccarsi dal cibo ... Cibo e vino, un binomio imprescindibile, lo dimostrano i tanti cuochi
chiamati a cucinare al (sempre più importante) Vinitaly. Ma anche no: c’è aria nuova in cucina e pure in cantina. Riassunto delle puntate precedenti. L’abbinamento cibo-vino è nato in Italia dopo il 1850 quando arrivano sul mercato le prime bottiglie dei prodotti migliori.
Apripista il marchese Antinori e qualche altro nobile a Montalcino, la marchesa del Falletto
Barolo, i tenimenti reali di Barolo e Fontanafredda. Lo racconta il grande Giovanni Rebora,
u professù, nel suo fondamentale La Civiltà della forchetta (Laterza, 1998). Gli enologi, a va sans dire, erano francesi. Mentre il commercio del vino in Europa si sviluppa ancora attorno ai vini dolci e ai liquorosi vini greci, i francesi cominciarono a produrre e vendere vini rossi e bianchi di grande qualità.
“Da qui nacque anche il gusto dell’abbinamento dei vini ai cibi e in seguito anche l’uso
costruire un intero pranzo da abbinare a una successione di vini. Credo che questa rivoluzione sia l’avvenimento più importante, nella cultura del vino, che si sia manifestato nell’età moderna” scrive Rebora. Nel bellissimo racconto (e poi film) di Karen
Blixen Il pranzo di Babette l’ex cuoca Babette
Hersant, fuggita da Parigi e ospitata per anni come governante da due anziane sorelle, riceve un’ingente vincita e per ringraziare le donne la spende per preparare una cena con molte prelibate portate e cambio di vini indomani le due
sorelle chiedono a Babette se ora che ha ottenuto quella somma potrà tornare in Francia. Nessuno dei presenti alla cena, a parte un generale
che l’ha riconosciuta, si è reso conto di quello
che ha mangiato e bevuto. 11 racconto è del 1950
e in Italia è stato pubblicato (da Feltrinelli) nel
1952. Eppure qui c’è chi si comporta come le due
zitelle, chiedendosi come si possano spendere
tanti soldi in un ristorante. Nessun francese, entrando da Bocuse o Troisgros si porrebbe questa
domanda.
“Il vino segua il territorio di una civiltà, accompagna i cibi e ne esalta i sapori” dice ancora
Rebora. Ma è noto il paradosso del maestro
Gualtiero Marchesi: “Bisognerebbe bere solo acqua per comprendere bene i sapori”. La sua idea
ricorda un po’ quella del mitico Annibale Frossi,
campione olimpico con la Nazionale italiana nel
1936, poi giornalista, per cui lo 0-0 era il risultato
perfetto. Personalmente credo nella dignità di-
stinta. E non sono il solo,
La cantina in un ristorante ha sempre la sua
importanza, ma che senso ha offrire al cliente
una carta dei vini che per girarla occorrono le braccione verdi dell’incredibile Hulk? Sono stato
a cena recentemente in un grande ristorante milanese. La carta dei vini era un tablet e non era
smisurata. Bando agli estremismi: non è uno
scandalo pasteggiare con l’acqua (anche se non
si è astemi) e neanche cambiare un vino ogni
piatto, per chi ha il fisico (o l’autista o la camera
di sopra). Dico “fisico” perché non sopporto
quelli che cambiano otto vini ma si bagnano solo le labbra e mandano via il bicchiere pratica-
mente pieno. Questo è spreco. Comunque sempre più ristoranti hanno una carta snella, con etichette mirate e di qualità. In provincia i cuochi più intelligenti scelgono e propongono cantine locali eccellenti, anche piccole. Quindi, anche se non più
ancorato solo al cibo, il vino non soffre. Anzi.
Crescono le cantine private, aumenta l’interesse
per la “cave” sotto casa. Oltre alla foto dei figli,
sul cellulare, c’è chi mi mostra la foto della cantina e delle etichette.
Così l’Italia allarga l’orizzonte dell’interesse e della comprensione del vino. E a pochi mesi dal
decimo anniversario della scomparsa, ci piace
ricordare Gino Veronelli (29/11/2004) che per
questo ha fatto tanto.

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