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Corriere Della Sera

Matteo Lunelli … Le scelte alle Cantine Ferrari. “Tutto il settore si sta evolvendo, grazie all’arrivo di professionisti con esperienza nelle ditte private e nelle coop grandi e piccole”, dice l’amministratore delegato del gruppo, che non dimentica il suo passato di banchiere in Goldman Sachs... Per l’Italia da bere “è il momento dei manager”. Matteo Lunelli, trentino, è il presidente e l’amministratore delegato di Cantine Ferrari, il marchio che ha trasformato la dolce vita in bollitine. Come tutti i vignaioli ha un legame quasi passionale con la sua terra, ai piedi delle Dolomiti, e con la sua cantina. A differenza dei colleghi, ha trascorso anni lavorando, a Zurigo, New York e Londra, nella banca d’affari americana Goldman Sachs. Un’esperienza che gli fa mantenere l’ottimismo mentre osserva le incursioni straniere nelle aziende del vino italiano (dai francesi alla conquista del Brunello di Biondi Santi, agli americani nelle Langhe del barolista Vietti). Lunelli è convinto che è l’ora di un rilancio locale per mitigare gli effetti della globalizzazione dei produttori. Il percorso: dall’artigianato familiare ai manager in cantina, a fianco delle famiglie. Ha cominciato assumendo Beniamino Garofalo, milanese, il nuovo direttore che viene da Lvmh.

Perché in Italia non esistono grandi investitori come Bernard Arnault, il collezionista del lusso di Lvmh che oltre a Dior e Vuitton possiede Dom Pérignon, Moét & Chandon ed Hennessy? Perché il bicchiere italiano sembra sempre mezzo vuoto?

“Un approccio puramente finanziario non è adatto al mondo del vino. Il nostro è un settore in cui i tassi di crescita e rendimento non sono così elevati. Esistono nel mondo giganti come Constellation Brands, che dagli Stati Uniti vende vino per 2,4 miliardi di dollari. Ma sono convinto che non sappia realizzare vini in grado di emozionare”.

Significa che l’eccellenza italiana è tale perché resta nelle mani dei piccoli?

“C’è una tendenza interessante: quella delle famiglie come la nostra che stanno aggregando altre aziende. Noi l’abbiamo fatto con Bisol, un pezzo di storia del Prosecco superiore. Altri stanno costruendo progetti di crescita. Ad esempio Santa Margherita della famiglia Marzotto, sbarcata negli Stati Uniti per curare vendita e distribuzione. O gli Antinori che poche settimane fa hanno acquistato una nuova azienda bio nel Chianti. O i Frescobaldi, diventati di recente neo proprietari di una nuova maxi tenuta a Montalcino”.

Dove porta questa crescita?
“A tutelare il genius loci delle terre del vino. Le famiglie garantiscono qualità ed eccellenza. Hanno una visione di lungo periodo”.

Qual è l’orizzonte di un investimento nel vino?

“Almeno una generazione. Un esempio è l’ultimo vigneto che abbiamo piantato, Alto Margon, sopra la nostra villa, uno dei più estremi, 700 metri d’altitudine. Ci sono voluti 5 anni per l’autorizzazione, ne servono altri 7 perché le viti diano frutti di qualità e lo perché le uve possano essere utilizzate per una grande riserva. Nelle famiglie si accetta il rischio di un nuovo vigneto perché lo si affiderà ai figli e ai nipoti”.

Come si fa a trasformare tutto ciò in un vantaggio se i concorrenti sono grandi investitori come Arnauld?

“In Italia non ci sarà un Armani nel vino. Non funzionerebbe. La vera sfida per le famiglie è affrontare i mercati internazionali con una logica manageriale. Rafforzandosi per comunicare e promuovere il vino”.

È quello che fanno i grandi dello champagne.

“L’arrivo dei signori della moda nelle maison di champagne ha cambiato tutto, una rivoluzione. Hanno portato dirigenti con spiccate capacità di comunicazione e marketing”.

È questa la via che immagina?

“Dobbiamo attrarre manager di talento nelle cantine delle famiglie e delle coop. Noi l’abbiamo fatto. E altri lo stanno facendo, come Càvit guidata da Enrico Zanoni, che arriva da Nestlé. O Settesesoli con Vito Varvaro da Procter & Gamble. O il gruppo Mezzocorona con Fabio Maccari da Unilever. Manager in grado di far competere il nostro vino a livello internazionale”.

Quali sono i punti di forza?

“Il vino italiano ha questi elementi distintivi: la qualità, la diversità dei vitigni, la vocazione dei tanti territori e la passione dei viticoltori. Che non va persa, anche con aziende guidate dai manager. Poi c’è un altro fattore: lo stile di vita italiano. Ciascuno dei nostri vini trasmette l’emozione dell’Italia, evoca vacanze, qualità del quotidiano. La nostra arte di vivere”.

Ma dove si trovano i soldi per investire e crescere?

“I capitali si trovano senza difficoltà. Quando Terra Moretti ha deciso di acquistare Sella&Mosca in Sardegna dal gruppo Campali si è subito affiancato un fondo cinese, entrato con una quota di minoranza”.

Perché sempre più stranieri acquistano cantine italiane?

“Il settore va bene, è normale che attragga investitori esteri. Può non essere negativo”.

Gli italiani acquistano meno?

“Le acquisizioni nel mondo del vino sono complesse. C’è un legame di cuore tra proprietari e aziende, le cantine in vendita (almeno quelle che funzionano) sono rare. E poi, nella fascia alta, come Biondi Santi, il prezzo di vendita in rapporto al fatturato è straordinariamente alto”.

Mancano le occasioni, quindi.

“Se ci sono famiglie oppure cooperative con idee importanti non hanno problemi ad attrarre finanziatori e fondi. Un esempio positivo è stato 21 Investimenti con l’operazione Farnese Vini: azienda acquistata, rilanciata fino a quasi raddoppiare il fatturato e rivenduta dopo 3 anni a Nb Renaissance Partners”.

Un’operazione finanziaria.

“Nei prossimi anni vedremo una sempre maggiore attività di imprenditori esteri, e di fondi internazionali nel vino italiano”.

E il nostro capitalismo famigliare del vino che ruolo avrà?

“Noi vogliamo crescere anche per linee esterne. Il percorso dei manager che stiamo iniziando è vitale per il futuro”.

Con quale obiettivo?

“Mantenere e incrementare l’eccellenza. E la sostenibilità. L’Italia è il primo Paese al mondo per vigneti biologici: il 49 per cento del totale è certificato bio”.

Come si può far conoscere il vino it”aliano ?

“Promuovendo lo stile di vita italiano in sinergia con altri settori. Cibo, moda, design. Con Altagamma ci occupiamo di questo. Il Salone del mobile è un esempio virtuoso, il design ha contaminato una città, facendo respirare cultura italiana a 360 gradi. Ferrari ha collaborato con Kartell, Frau e Zegna. Ora ci dirigiamo in Versilia, portiamo le nostre bottiglie ad un evento con protagonisti i grandi yacht. Bollicine e belle barche, il pubblico che ama le emozioni è lo stesso”.

Quanto fattura il gruppo Lunelli?

“Nel 2016, 94 milioni di euro complessivi, 63 con Cantine Ferrari, poi ci sono Bisol e Tenute Lunelli con i vini di Toscana, Umbria e Trentino. E l’acqua Surgiva, dal Parco naturale delle Dolomiti del Brenta. E infine la grappa Segnana, il marchio più antico, dal 1860”.

Siete cresciuti?

“Una crescita del 10% rispetto al 2015. Nel 2017 stiamo registrando un ulteriore aumento. Anche grazie all’arrivo del direttore Beniamino Garofalo, il gruppo è più articolato e internazionale, con più persone di talento. Non vogliamo perdere però il legame con il territorio. Un principio che abbiamo seguito anche in Umbria, con la cantina disegnata da Arnaldo Pomodoro. Vogliamo vendere in tutto il mondo ma con radici piantate nella terra. Una sfida complessa, perché con il fatturato che abbiamo non possiamo permetterci la struttura delle multinazionali. Ma possiamo puntare su un futuro assieme ai manager”.

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